Recentemente è apparso un editoriale sul sito del National Institute of Mental Heath (NIMH), la principale agenzia governativa americana che si occupa di salute mentale, a cura di Thoma Insel, psichiatra e neuroscienziato di fama mondiale nonché attuale presidente del NIMH. L’articolo è una breve analisi circa lo stato attuale della psichiatria americana ma a mio modesto parere può fornirci spunti di riflessione interessanti. Inoltre precede di poco la pubblicazione di un altro noto post che ha messo seriamente in discussione un baluardo della psichiatria attuale, ovvero l’utilizzo del DSM-IV, il più noto sistema di classificazione internazionale sui disturbi mentali.
Insel è convinto che la psichiatria americana stia vivendo una lenta ma progressiva rinascita, una sorta di trasformazione/metamorfosi in “neuroscienza clinica“, dovuta al fatto che sempre più medici ricercatori in possesso di un dottorato in neuroscienze decidono di specializzarsi in psichiatria, nonostante il forte calo di iscrizione di cui tale branca della medicina è vittima.
Il direttore del NIHM risponde così a quanto pubblicato dalla prestigiosa rivista britannica The Lancet secondo cui, al contrario, l’attuale momento della psichiatria è caratterizzato da una crisi identitaria internazionale che ha come principale indicatore proprio la diminuzione delle iscrizioni alla specialità universitarie e come cause alcuni fattori, tra cui la presunta pseudo-scientificità della disciplina, la scarsa remuneratività della professione, nonché la sensazione di trovarsi di fronte ad una disciplina dai confini poco delineati, in continua evoluzione e la cui autorevolezza e solidità scientifica viene messa continuamente in discussione. Retroscena che sta spingendo sempre più studenti verso aree di ricerca recenti come le neuroscienze cliniche.
Quest’ultime, in particolare, riscuoterebbero sempre più interesse nelle nuove generazioni e giocherebbero di rimessa, contribuendo ad alimentare e a rafforzare gli stereotipi e le criticità legate alla psichiatria “classica”. Da qui il monito degli psichiatri inglesi ad abbracciare con forza il metodo delle scienze naturali e a ri-proporsi con autorevolezza come scienza biomedica, sviluppando maggiormente rispetto al passato solide teorizzazioni e pratiche cliniche standardizzate e di provata efficacia.
Insel, da parte sua, pur condividendo il dato generale negativo relativo alla diminuzione degli iscritti, ritiene la situazione della psichiatria americana in crisi quanto quella britannica, ma più intrisa di entusiamo e di speranza. Essa appare più capace di adattarsi alle recenti scoperte provenienti dai vari campi di ricerca e di sviluppare modelli di intervento efficaci e innovativi. Del resto, chi in passato sceglieva oncologia o settori specifici della chirurgia, oggi viene sempre più attratto dal potenziale legame tra psichiatria e neuroscienze e dalla possibilità di operare nell’interfaccia tra medicina clinica e ricerca sperimentale. Il tutto a beneficio della disciplina stessa.
Per questo motivo, sempre secondo l’autore, il giovane ricercatore che vorrà “lasciare un segno” tangibile del proprio operato non potrà che farlo in questo affascinante campo di studi, che appare attualmente più fruttuoso e meno saturo rispetto ad altri, e più attrezzato rispetto al passato a rispondere ad alcune questioni critiche (“The questions are profound, the patients are fascinating, and the tools are finally available to make unprecedented progress.”)
I tempi sembrano quindi maturi per promuovere un radicale cambiamento, ma nel frattempo si è acceso un interessante dibattito (ripreso dalla rivista italiana Psicoterapia e Scienze Umane) su quale possa essere la via migliore per uscire da questa “crisi identitaria”. A mio modesto parere, è senz’altro positivo e incoraggiante il dialogo che si sta instaurando tra neuroscienze e psichiatria, così come è legittimo aspettarsi che la psichiatria, da sempre orientata – a differenza della psicologia – a studiare le malattie psichiche come derivanti da un malfuzionamento fisiologico del sistema nervoso centrale, voglia rinnovarsi e acquisire maggior autorevolezza scientifica proprio grazie all’apporto delle neuroscienze. Ma non vi è forse il rischio di cadere nuovamente in un riduzionismo metodologico, a discapito di una reale comprensione della sofferenza umana?!… Rischio che si concretizza ogniqualvolta appaiono ricerche in cui, ad esempio, si spiega un’esperienza unica, soggettiva e personale come l’innamoramento nei soli termini neuro-fisiologici (autorevolissimo premio Ig-nobel!)
Probabilmente la crisi di cui parlano gli autori e che è in qualche modo appare palpabile se prendiamo in considerazione alcuni aspetti (si prenda in considerazione, ad esempio, questi articoli: http://www.carmelodimauro.com/?p=2272; http://www.psychomedia.it/pm/modther/probpsiter/ruoloter/rt112-09.htm) non va ricondotta né alle diminuzione delle immatricolazioni, né alla forte attrattiva delle neuroscienze, né tanto meno alla possibilità di applicare totalmente un metodo standardizzato e “scientifico” alla cura dei disturbi mentali, ma va fatta risalire ad una crisi ancora più ampia e previa e che vede principalmente riguardare l’oggetto di studio della disciplina stessa: l’uomo e i suoi modi di essere-nel-mondo… Ente piuttosto particolare rispetto a qualsiasi altro ente, e che ormai da diversi anni la ricerca scientifica e diverse speculazioni filosofiche hanno dimostrato non essere più indagabile né secondo modalità pseudo-scientifiche né tantomeno nei soli termini anatomo-fisiologici di stampo riduzionista, secondo cui “noi siamo il nostro cervello, cosicché un disturbo mentale è SOLO un’alterazione a livello neuro-fisiologico”. Pena questo senso di imprendibilità e di sfuggevolezza dell’uomo e della sua sofferenza!
Come suggerito da Liccione (2012), quando si parla di esperienza umana l’indagine scientifica in terza persona (il cosa) non può che accompagnarsi all’indagine scientifica in prima persona (il Chi?). Riprendendo la differenza ontologica di Martin Heidegger (1889-1976), se ci si limita a spiegare l’uomo come si spiega una qualsiasi altra cosa, nei termini della semplice-presenza, riducendolo e rinunciando così a comprenderlo per come si dà originariamente e effettivamente al mondo (progetto-gettato), nei suoi modi possibili, riuscirà difficile comprendere adeguatamente il senso della sua sofferenza e l’effetto che fa una sua particolare esperienza. Perchè allora non fare un ulteriore passo, nel campo della salute mentale, e non appropriarsi di un metodo (Liccione, 2011) capace di far dialogare discipline diverse come quelle che studiano l’uomo in terza persona (psicologia sperimentale, neuroscienze – eccole! – biologia, neurochimica) con quelle che studiano l’uomo nei suoi modi esistenziali, siano essi esperienziali o narrativi (approcci in prima persona). Perché non combinare il contributo dato da discipline quali le neuroscienze, la biologia, la neurochimica o la psicologia dello sviluppo, con quello dato da approcci filosofici e umanistici quali la fenomenologia e l’ermeneutica? A maggior ragione se consideriamo il fatto che sono le stesse neuroscienze (scienza in terza persona) ad essersi ultimamente avvicinate agli approcci ermeutico-fenomenologici (scienze in prima persona) per dare un senso ai risultati emersi dalle loro ricerche (gli studi di Gallese; Gallagher & Zahavy, The phenomenological mind, 2008; Rizzolatti & Sinigaglia, So quel che fai, 2006). Fenomenologia che, non va dimenticato, costituisce fin dagli albori della psichiatria una fonte preziosissima di riflessioni psicopatologiche (si pensi ad esempio a Jaspers e alla sua opera “Psicopatologia Generale” – di cui ricorre il centenario (1913-2013) – o al pensiero di Biswanger) e che proprio nel corso degli ultimi anni è tornata prepotentemente alla ribalta obbligando tutti ad un serio esame di “coscienza”. (Si veda questo articolo apparso recentemente su Schizoprenia Bulletin e che si interroga proprio sull’oggetto di studio della psichiatria e sulla necessità di riscoprire la psicopatologia.)
E’ questo l’obiettivo del metodo cognitivo-neuropsicologico, proposto come nuovo modello terapeutico: permettere il dialogo tra discipline che si occupano quasi della stessa cosa all’interno di una cornice teorica che pone come criteri base sia la validità empirica che l’interdisciplinarità, senza mai scordare la duplice appartenenza dell’uomo all’ordine naturale (biologia, neuro-chimica, psicologia sperimentale ecc.) e a quello psichico (culturale, storico, sociale, fenomenologico, ecc.), al di là di qualsiasi dualismo. Come spiega Liccione (2011), il linguaggio delle neuroscienze e quello della psicologia non sono due linguaggi impenetrabili, anzi, “poiché il campo delle scienze è per sua natura plurale, le scienze umane possono dialogare con le scienze biologiche e in specifico con le scienze del sistema nervoso”.
I disturbi mentali non potranno allora che configurarsi all’interno di un continuum i cui estremi saranno le patologie non-storiche da un lato e le patologie storiche dall’altro, oltre alle patologie che si caratterizzano per un deficit dell’ipseità primaria (ad es. disturbo autistico). Le prime, come ad esempio un trauma cranico, saranno spiegabili principalmente in termini “bio”, accadendo nel silenzio della storia individuale, mentre i motivi eziopatogenetici delle seconde (ad es. disturbo alimentare) saranno prevalentemente comprensibili attraverso le scienze umane. E’ chiaro che la maggior parte dei disturbi mentali si collocherà in mezzo, costringendo il clinico a confrontarsi sia con “la cosa” che con il “Chi”, ossia con la duplice natura dell’essere umano.
A mio modesto parere è questa la vera sfida da affrontare: considerare l’uomo nella sua complessità e nella sua primaria apertura al mondo, di natura prevalentemente pre-riflessiva. Sia le neuroscienze che la fenomenologia non bastano pertanto da sole, ma co-occorrono all’interno di un quadro teorico e metodologico che pone come principali attori l’interdisciplinarità e la ricerca scientifica di base. Da questa unione si aprirebbero nuove direzioni di senso grazie alle quali appare finalmente possibile comprendere adeguatamente l’originaria relazione dell’uomo con la propria esistenza.

Psicologo e Psicoterapeuta. Coniuga l’attività clinica privata con quella specialistica presso Enti socio-sanitari della provincia di Piacenza.