Stranger Post-it

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“Qual è il discrimine per far nascere un sospetto?!”

Questo è l’interessante quesito con cui si chiude un bel post apparso su Sonetto Bit qualche giorno fa. Lungi da me valutare a fondo la bontà della campagna pubblicitaria, da psicologo sono molto più interessato all’interrogativo “epistemologico” che l’autrice pone.
La reazione emotiva citata è il panico. Quanto racconta l’autrice, ossia la risposta emotiva di un’intera comunità in conseguenza della comparsa di post-it appiccicati qua e là, evoca alla mia memoria alcuni studi di psicologia sociale aventi come tema l’influenza delle emozioni sulla percezione di vulnerabilità.
Assumendo una prospettiva diversa dalla classica impostazione cognitiva, credo che il panico sia frutto della sensazione di disorientamento dovuta ad un conseguente riduzione di “mondo”. Per mondo, intendiamo quello che intendeva Heidegger ossia l’insieme delle opportunità e dei significati all’interno del quale già siamo e che si danno alla nostra coscienza.
In quest’ottica, se io vivo nella tonalità emotiva della “paura”, incontro il mondo in termini paurosi e minacciosi. Ci sono splendide pagine in Essere e tempo che descrivono il carattere esistenziale dell’esser-ci emotivamente situato. Se vivo con la sensazione che il nemico arrivi da qualsiasi parte e in qualsiasi momento, vivrò in perenne stato di allerta e all’interno di una angoscia profonda.
Il mondo si restringe  e io perdo quindi la possibilità di accedere al simbolico e di astrarre le informazioni nella “forma” originaria. Assistiamo inoltre a reazioni scomposte di fuga dal “centro” (la ragione, la verità) proprio perché, come giustamente fa notare l’autrice parlando della società di oggi (la società delle informazioni), il centro non esiste più: appare tutto potenzialmente raggiungibile ma paradossalmente sfuggente (Internet), tutto a portata di mano ma nello stesso tempo inafferrabile, schiumoso e globulare direbbe Peter Sloterdijk. Ognuno vive nelle proprie monadi informative, e non si è più disposti ad interessarsi all’altro. Partendo da questa considerazione, immaginiamoci in uno spazio: dov’è ora la linea immaginaria che separa il buono dal cattivo, la curiosità dal sospetto, il vero dal falso? Forse qualche decina di anni fa sarebbe stato più facile rispondere…Oggi sembra tutto più difficile (post-modernismo), e la difficoltà consiste proprio nel sapere discernere. Tradotto: dove collocarsi? Dove guardare? Da che parte stare? E soprattutto: può ancora sussistere la possibilità di discriminare e scorgere il Vero se davanti a me pre-sentifico costantemente una presenza (nemica) che copre l`orizzonte stesso (più ampio) della verità?


Il sentirsi scoperti, non più ” a casa”, con il dubbio che ci possono “invadere”, se diventa costitutivo del nostro esserci quotidiano aumenta la sensazione di allarme, la percezione di fragilità e di pericolo. Aumenta la paranoia. A quel punto vedrò solo il nemico. Del resto, se vivo nella paura il mondo non si darà costantemente alla mia coscienza in termini minacciosi e paurosi?

Paura che sarà attenuata solo in parte dalle effimere risposte fornite dalle “bufale un tanto al kilo”, che proprio per loro natura vengono percepite inizialmente come riduttori di complessitàquindi di lontananza: chi “si ritrova in esse” si sente complice, protetto, e vicino come non mai ad un inaspettato e rassicurante “focolare“. Ma la verità non giunge mai, si rimane immersi in un vuoto informativo che genera a lungo termine angoscia.

Ecco allora il motivo per cui secondo me una brillante trovata pubblicitaria non viene più colta nella sua immediatezza con stupore, ma con fastidio, paura e disorientamento. Non c’è più prospettiva e nulla può emergere se non una forma arcaica di paura e sospetto pre-umana. Mi viene in mente una canzone di Gaber, da titolo “La Paura”:

“(…) Siamo a dieci metri. Le mani stringono al petto… un grosso mazzo di fiori, un mazzo di fiori? Chi crede di fregare? Una pistola, un coltello, nascosto in mezzo ai tulipani, come sono furbe le forze del male. 
Eccolo, è a cinque metri, è finita, quattro tre due un… 
Ahhhh, niente, era soltanto, un uomo.”

Con la differenza che un tempo, sia il personaggio di Gaber che quello di Don Abbondio nell`episodio dei Bravi de “I Promessi Sposi” (pavido per eccellenza), trovavano in qualche modo il modo di andare avanti, pur nella loro pavidità e costrizione. Accettavano la sfida a proseguire sulla strada dell’ignoto, mettendosi poi nelle condizioni di “cambiare”, di venire “illuminati” o di essere redenti (sugli esiti, direi che se l’è cavicchiata meglio il personaggio immaginato da Gaber!..)

Oggi? Nel venir meno di prospettiva non c’è più sentiero, si dileguano quindi anche le rimanenti possibilità di cambiamento dovute all’andare “incontro” (disvelamento): “si rimane fermi” a prescindere, in un corto circuito mediatico dove non c’è più spazio per l’altro ma si è solo hooligans della propria squadra. Così le paure si condividono su Facebook in attesa di un mi piace che le confermi e le rifletta, come in un labirinto di specchi.

“Translation Problem”, neuroscienze e fenomenologia

“Translation Problem”, neuroscienze e fenomenologia

In futuro saremo obbligati a “tradurre” nel quotidiano ogni scoperta proveniente dal mondo neuroscientifico? Saremo costretti a modificare il modo in cui concepiamo e parliamo delle emozioni e dei nostri sentimenti in seguito alla pubblicazione di autorevoli studi che ci informano su quali siano le aree corticali attive mentre guardiamo la foto della nostra fidanzata/o, o mentre la/lo stiamo pensando? Finiremo per prendere le decisioni migliori solo perché abbiamo capito come funziona in termini neurobiochimici e cognitivi il processo di decision making?

Questo si chiede con un certo stupore Neuroskeptic riprendendo il neanche troppo provocatorio paper pubblicato recentemente da alcuni ricercatori olandesi, avente appunto come tema il “Translation Problem“. Per Translation Problem si intende proprio questo: perché le scoperte neuroscientifiche non hanno avuto ancora un impatto sul linguaggio, sul modo in cui pensiamo e sui modi in cui concepiamo fenomeni psichici quotidiani quali leggere, amare, sentire, decidere, etc? Come mai questo ritardo…!?

Per chi non lo conoscesse, Neuroskeptic pubblica sulla piattaforma di Discover Magazine e critica frequentemente tutto ciò che emerge di falsoesageratoanti-scientificodubbioso o pretenzioso dal campo delle neuroscienze, della psichiatria e della psicologia. Lungi dall’essere “contro”, è invece garante e custode della “buona” psicologia e della validità di seri studi neuroscientifici. Può pertanto considerarsi un “debunker” applicato a tali discipline e riferendosi all’articolo sopra citato afferma fin da subito:

“It’s a thought-provoking piece, but it left me feeling that the authors are expecting too much from neuroscience. I don’t think insights from neuroscience are likely to change our lives any time soon.”

Cui segue, subito dopo, la seguente, illuminata, connsiderazione:

“I don’t see any reason why neuroscience would change our everyday lives. To put it simply, we already know what our brains do – we are familiar with the behaviours and experiences that make up human life (i.e. with psychology, broadly defined). Neuroscience is the search to understand how the brain does what it does, but this knowledge won’t change the facts of psychology.

Una considerazione netta che per chi ha un minimo di infarinatura filosofica può risuonare per certi versi fenomenologica! Cosa intendo con queste parole? Ebbene, anche la fenomenologia, corrente filosofica del primo ‘900, ha per certi versi un passato da debunker, al pari di Neuroskeptic! E nonostante sia passato ormai un secolo dalla sua nascita, è stata e rimane uno dei principali interlocutori critici rispetto al ruolo di un certo tipo di psichiatria e delle neuroscienze cognitive attuali, soprattutto quando si tratta di dare un “senso” e un “significato” alle loro recenti scoperte.

Molto semplificando, uno dei più grandi insegnamenti della fenomenologia consiste nel considerare l’esperienza già di per sé significativa, al di là dell’atto psichico/riflessivo. L’esperienza non è muta, ma è già dotata di significato per il semplice fatto che l’uomo non è un ente separato dal oggetto, ma intrattiene continuamente con esso un rapporto intenzionale in cui si rende esplicito fin da subito un orizzonte di senso dato a sua volta da una apertura originaria. Uno “spazio” autentico e immediato che Heidegger chiama, ad esempio, “essere-nel-mondo”. E’ principalmente per questo motivo che schiere di fenomenologi sono soliti gridare entusiasti: “Alle cose stesse”!

Tutto è sgombero dai pregiudizi e dalle assunzioni, anche quelle scientifiche: pena il non poter effettuare l”epoché” (la riduzione fenomenologica). Rivolta alla scienza, la critica maggiore non è tanto sulla validità del metodo scientifico, quanto ad una certa “pretesa” che il così detto scientismo (mi verrebbe da dire, l’eccesso di zelo nel considerare il metodo scientifico come l’unico modo per accedere alla verità, al reale..) ambisce ad avere nel momento in cui ritiene di essere “l’unica” realtà possibile e accettabile! Pur riconoscendo il contributo della scienza e dello sviluppo tecnologico all’umanità, la fenomenologia ritiene che non sia poi così necessario sapere di che cosa è composta chimicamente l’acqua per dire come ci si senta ad essere bagnati. Basta l’esperienza dello stare sotto la pioggia, l'”effetto che fa” l’acqua sulla nostra pelle durante, ad esempio, un temporale. L’insieme di questi elementi ci invita a considerare che per la fenomenologia basta, in sostanza, l’immediatezza del mondo della vita!

Ebbene, come se facesse riferimento agli insegnamenti della critica fenomenologica, Neuroskeptic formula nel corso del suo post un interessante esempio avente come oggetto la retina:

“To give an example, we now know a great deal about the structure and function of the retina (which is part of the brain.) Retinal biology is useful in diagnosing and treating retinal diseases. But it hasn’t changed how we use our retinas in everyday life, or how we think about vision. We already knew how to use our retinas; science just explained why the retina works the way it works.”

 

In sostanza, il fatto di sapere qual è la struttura biologica della retina (cervello) e il suo funzionamento è senz’altro importante per la diagnosi e per il trattamento di patologie, ma nulla aggiunge al modo in cui ce ne serviamo” nel quotidiano, al modo in cui vediamo, o a quello che pensiamo e diciamo su di essa! Noi già sappiamo come usare la retina! È chiaro quindi che non potremo mai ridurre l’esperienza umana (in questo caso, ad esempio, il vedere e il percepire persone ed oggetti, ma si potrebbero fare tanti altri esempi) agli esiti di un esperimento scientifico per il semplice fatto che non potremo mai scomporre un fenomeno che per sua natura è dannatamente più ampio e complesso di quello che ci ostiniamo a misurare. Per tal motivo, parlare di traduzione è limitato se non limitante.

In conclusione, la vera ed unica traduzione consiste non tanto nel cercare di “inglobare” il linguaggio delle neuroscienze nella nostra vita quotidiana, quanto nel mantenere vivo un dialogo tra due discipline che, a vario titolo, cercano di dire diversamente la stessa cosa, o quasi la stessa cosa: le neuroscienze (intesa come scienza in terza persone, che ha come oggetto di studio la Cosa) e la psicologia (intesa come scienza in prima persona, che ha come oggetto di studio il Chi). E’ questa la sfida più grande che spetta agli studiosi del comportamento umano (sia nella variante normale che in quella patologica): tradurre due linguaggi specialistici senza tuttavia ridurre l’uno all’altro.

Ecco allora l’esigenza di una neuropsicologia “ermeneutica”, capace di mediare continuamente tra le neuroscienze che si occupano del “corpo” e la psicologia che si occupa della “carne (riprendendo la classica distinzione di Husserl tra Korper e Leib). Una distinzione “fine” propria della fenomenologia, da preservare quanto quella di Dilthey tra Spiegazione e Comprensione, e che avrebbe senz’altro reso maggiormente incisiva la pur rispettabile critica di Neuroskeptic (il quale a mio modesto parere si limita, invece, a dire: “non esiste il problema”)! Per questo motivo, l’amore romantico non può e non potrà mai essere ridotto alla sola biochimica di un severo disturbo ossessivo-compulsivo. Pena la vittoria del premio Ig-nobel, come già accaduto in passato, e l’avverarsi di una “scienza unica” come si augurava il positivismo! Così come difficilmente prenderemo la decisione migliore solo perché sappiamo come funzionano i processi neuro-cognitivi sottostanti. L’amore, i sentimenti, le decisioni, ecc dipendono certamente da aree cerebrali e processi, ma il fatto di sapere come funziona “l’amore” nulla aggiunge all’esperienza stessa dell’amore. Sono importanti anche motivi “storici” dettati da una storia di vita, il contesto e l’orizzonte di senso in cui, quel giorno, ho incontrato quella ragazza o ho preso quella decisione. Una storia per definizione unica e irripetibile, e per questo difficilmente afferrabile.
Onde evitare di ricadere negli stessi errori, se lette in modo critico rimangono un monito le seguenti parole di Husserl:
«Nella miseria della nostra vita – si sente dire – questa scienza non ha niente da dirci. Essa esclude di principio proprio quei problemi che sono i più scottanti per l’uomo, il quale, nei nostri tempi tormentati, si sente in balia del destino».
Bibliografia

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