“Translation Problem”, neuroscienze e fenomenologia

“Translation Problem”, neuroscienze e fenomenologia

In futuro saremo obbligati a “tradurre” nel quotidiano ogni scoperta proveniente dal mondo neuroscientifico? Saremo costretti a modificare il modo in cui concepiamo e parliamo delle emozioni e dei nostri sentimenti in seguito alla pubblicazione di autorevoli studi che ci informano su quali siano le aree corticali attive mentre guardiamo la foto della nostra fidanzata/o, o mentre la/lo stiamo pensando? Finiremo per prendere le decisioni migliori solo perché abbiamo capito come funziona in termini neurobiochimici e cognitivi il processo di decision making?

Questo si chiede con un certo stupore Neuroskeptic riprendendo il neanche troppo provocatorio paper pubblicato recentemente da alcuni ricercatori olandesi, avente appunto come tema il “Translation Problem“. Per Translation Problem si intende proprio questo: perché le scoperte neuroscientifiche non hanno avuto ancora un impatto sul linguaggio, sul modo in cui pensiamo e sui modi in cui concepiamo fenomeni psichici quotidiani quali leggere, amare, sentire, decidere, etc? Come mai questo ritardo…!?

Per chi non lo conoscesse, Neuroskeptic pubblica sulla piattaforma di Discover Magazine e critica frequentemente tutto ciò che emerge di falsoesageratoanti-scientificodubbioso o pretenzioso dal campo delle neuroscienze, della psichiatria e della psicologia. Lungi dall’essere “contro”, è invece garante e custode della “buona” psicologia e della validità di seri studi neuroscientifici. Può pertanto considerarsi un “debunker” applicato a tali discipline e riferendosi all’articolo sopra citato afferma fin da subito:

“It’s a thought-provoking piece, but it left me feeling that the authors are expecting too much from neuroscience. I don’t think insights from neuroscience are likely to change our lives any time soon.”

Cui segue, subito dopo, la seguente, illuminata, connsiderazione:

“I don’t see any reason why neuroscience would change our everyday lives. To put it simply, we already know what our brains do – we are familiar with the behaviours and experiences that make up human life (i.e. with psychology, broadly defined). Neuroscience is the search to understand how the brain does what it does, but this knowledge won’t change the facts of psychology.

Una considerazione netta che per chi ha un minimo di infarinatura filosofica può risuonare per certi versi fenomenologica! Cosa intendo con queste parole? Ebbene, anche la fenomenologia, corrente filosofica del primo ‘900, ha per certi versi un passato da debunker, al pari di Neuroskeptic! E nonostante sia passato ormai un secolo dalla sua nascita, è stata e rimane uno dei principali interlocutori critici rispetto al ruolo di un certo tipo di psichiatria e delle neuroscienze cognitive attuali, soprattutto quando si tratta di dare un “senso” e un “significato” alle loro recenti scoperte.

Molto semplificando, uno dei più grandi insegnamenti della fenomenologia consiste nel considerare l’esperienza già di per sé significativa, al di là dell’atto psichico/riflessivo. L’esperienza non è muta, ma è già dotata di significato per il semplice fatto che l’uomo non è un ente separato dal oggetto, ma intrattiene continuamente con esso un rapporto intenzionale in cui si rende esplicito fin da subito un orizzonte di senso dato a sua volta da una apertura originaria. Uno “spazio” autentico e immediato che Heidegger chiama, ad esempio, “essere-nel-mondo”. E’ principalmente per questo motivo che schiere di fenomenologi sono soliti gridare entusiasti: “Alle cose stesse”!

Tutto è sgombero dai pregiudizi e dalle assunzioni, anche quelle scientifiche: pena il non poter effettuare l”epoché” (la riduzione fenomenologica). Rivolta alla scienza, la critica maggiore non è tanto sulla validità del metodo scientifico, quanto ad una certa “pretesa” che il così detto scientismo (mi verrebbe da dire, l’eccesso di zelo nel considerare il metodo scientifico come l’unico modo per accedere alla verità, al reale..) ambisce ad avere nel momento in cui ritiene di essere “l’unica” realtà possibile e accettabile! Pur riconoscendo il contributo della scienza e dello sviluppo tecnologico all’umanità, la fenomenologia ritiene che non sia poi così necessario sapere di che cosa è composta chimicamente l’acqua per dire come ci si senta ad essere bagnati. Basta l’esperienza dello stare sotto la pioggia, l'”effetto che fa” l’acqua sulla nostra pelle durante, ad esempio, un temporale. L’insieme di questi elementi ci invita a considerare che per la fenomenologia basta, in sostanza, l’immediatezza del mondo della vita!

Ebbene, come se facesse riferimento agli insegnamenti della critica fenomenologica, Neuroskeptic formula nel corso del suo post un interessante esempio avente come oggetto la retina:

“To give an example, we now know a great deal about the structure and function of the retina (which is part of the brain.) Retinal biology is useful in diagnosing and treating retinal diseases. But it hasn’t changed how we use our retinas in everyday life, or how we think about vision. We already knew how to use our retinas; science just explained why the retina works the way it works.”

 

In sostanza, il fatto di sapere qual è la struttura biologica della retina (cervello) e il suo funzionamento è senz’altro importante per la diagnosi e per il trattamento di patologie, ma nulla aggiunge al modo in cui ce ne serviamo” nel quotidiano, al modo in cui vediamo, o a quello che pensiamo e diciamo su di essa! Noi già sappiamo come usare la retina! È chiaro quindi che non potremo mai ridurre l’esperienza umana (in questo caso, ad esempio, il vedere e il percepire persone ed oggetti, ma si potrebbero fare tanti altri esempi) agli esiti di un esperimento scientifico per il semplice fatto che non potremo mai scomporre un fenomeno che per sua natura è dannatamente più ampio e complesso di quello che ci ostiniamo a misurare. Per tal motivo, parlare di traduzione è limitato se non limitante.

In conclusione, la vera ed unica traduzione consiste non tanto nel cercare di “inglobare” il linguaggio delle neuroscienze nella nostra vita quotidiana, quanto nel mantenere vivo un dialogo tra due discipline che, a vario titolo, cercano di dire diversamente la stessa cosa, o quasi la stessa cosa: le neuroscienze (intesa come scienza in terza persone, che ha come oggetto di studio la Cosa) e la psicologia (intesa come scienza in prima persona, che ha come oggetto di studio il Chi). E’ questa la sfida più grande che spetta agli studiosi del comportamento umano (sia nella variante normale che in quella patologica): tradurre due linguaggi specialistici senza tuttavia ridurre l’uno all’altro.

Ecco allora l’esigenza di una neuropsicologia “ermeneutica”, capace di mediare continuamente tra le neuroscienze che si occupano del “corpo” e la psicologia che si occupa della “carne (riprendendo la classica distinzione di Husserl tra Korper e Leib). Una distinzione “fine” propria della fenomenologia, da preservare quanto quella di Dilthey tra Spiegazione e Comprensione, e che avrebbe senz’altro reso maggiormente incisiva la pur rispettabile critica di Neuroskeptic (il quale a mio modesto parere si limita, invece, a dire: “non esiste il problema”)! Per questo motivo, l’amore romantico non può e non potrà mai essere ridotto alla sola biochimica di un severo disturbo ossessivo-compulsivo. Pena la vittoria del premio Ig-nobel, come già accaduto in passato, e l’avverarsi di una “scienza unica” come si augurava il positivismo! Così come difficilmente prenderemo la decisione migliore solo perché sappiamo come funzionano i processi neuro-cognitivi sottostanti. L’amore, i sentimenti, le decisioni, ecc dipendono certamente da aree cerebrali e processi, ma il fatto di sapere come funziona “l’amore” nulla aggiunge all’esperienza stessa dell’amore. Sono importanti anche motivi “storici” dettati da una storia di vita, il contesto e l’orizzonte di senso in cui, quel giorno, ho incontrato quella ragazza o ho preso quella decisione. Una storia per definizione unica e irripetibile, e per questo difficilmente afferrabile.
Onde evitare di ricadere negli stessi errori, se lette in modo critico rimangono un monito le seguenti parole di Husserl:
«Nella miseria della nostra vita – si sente dire – questa scienza non ha niente da dirci. Essa esclude di principio proprio quei problemi che sono i più scottanti per l’uomo, il quale, nei nostri tempi tormentati, si sente in balia del destino».
Bibliografia
Riflessioni notturne sul contributo delle neuroscienze.

Riflessioni notturne sul contributo delle neuroscienze.


Come terapeuta, nel corso degli ultimi anni mi sono confrontato con le innovazioni teoriche e metodologiche proposte del modello cognitivo-neuropsicologico, la cui originalità consiste nel recupera
re e rinnovare la concezione dell’uomo come un essere basicamente storico, incarnato e situato (un esser-ci), così come la tradizione fenomenologica sostiene da circa un secolo, e metterla costantemente in dialogo con le più recenti scoperte provenienti dal mondo neuroscientifico. Sono le stesse neuroscienze a “chiedere” un nuovo interlocutore capace di dar senso a quanto scoperto (es, neuroni specchio, emoting, ecc), anche alla luce delle inadeguatezze del classico paradigma cognitivo, sia nelle sua variante standard che costruttivista.


Il metodo Neuropsicologico prevede pertanto un continuo dialogo tra discipline che studiano l’uomo in terza persona (neuroscience, biologia, neuro chimica, psicologia cognitiva, ecc) e le scienze che si occupano dell’uomo in prima persona, come la fenomenologia e la psicologia in senso lato.


Come si esplica tutto questo nell’attività clinica? Si rende manifesto un alternativo modello di definizione del malessere mentale, certamente non in linea con il classico modello dualistico che prevede la distinzione tra organico/funzionale, proprio della tradizione cartesiana/kantiana, ma più fecondo e originario. Una psicopatologia meglio inquadrabile all’interno di un continuum neuro-psico-patologico, in cui convive “la duplice appartenenza dell’essere umano sia al bios che al logos”, e dove i cambiamenti emotivo-comportamentali appaiono intelligibili sia alla luce di “motivi” e accadimenti umani e storici, sia in conseguenza di “cause” fisiche e biologiche. La storicità, quindi, come variabile fondamentale per una adeguata diagnosi. Ecco quindi la necessità di distinguere tra patologie storiche e patologia non-storiche (Liccione, 2012).


Detto questo, non può che farmi piacere e appassionarmi questo articolo (The Psychologist) pubblicato da una delle più autorevoli associazioni britanniche di psicologia scientifica (BPS), e ripresa a sua volta da MindHacks, la quale sembra interrogarsi appunto su come “far dialogare” e soprattutto, far fruttare, i contributi della rivoluzione neuroscientifica sull’attività clinica


” (…) Indeed, it could be argued that integrating psychological and neuroscientific information is the only way in which a truly holistic explanation of mental health problems can be proposed, as the brain is the interface at which genetic and environmental influences interact to produce thoughts, perceptions, beliefs and feelings. And there is no reason to assume that a brain mechanism can only be targeted using a ‘biological’ treatment – psychosocial interventions change the brain too. Importantly, this is not to privilege neuroscientific models over psychological models of symptoms. Each discipline has much to learn from the other, since they address the same questions but in a complementary fashion, at different levels of explanation. Ultimately they require integration: ‘mindless’ neuroscience and ‘brainless’ psychology are both incomplete explanatory frameworks. (…)”
“A useful notion is to consider different types of causes of symptoms lying on a spectrum, the extremes of which I will term ‘proximal’ and ‘distal’.” 
CIT. https://thepsychologist.bps.org.uk/volume-28/april-2015/what-has-neuroscience-ever-done-us

Pur focalizzandosi sul disturbo depressivo, è una questione che credo possa essere generalizzata all’intero ambito della salute mentale. Il rischio, a mio modesto parere, è quello di arenarsi in aporie filosofiche e metodologiche. Recuperare una visione dell’uomo più originaria e genuina (essere-nel-mondo, come la fenomenologia insegna) e appropriarsi definitivamente di un concetto più ampio di neuro-psicologia (“traduzione”), che prevede un continuum tra patologie storiche-non storiche, gioverebbe invece sia alle neuroscienze che alla psicologia stessa.
“Una crisi c’è sempre ogni volta che qualcosa non va” …ma comunicare è necessario per uscire da una fase di stallo e spiccare definitivamente in volo

“Una crisi c’è sempre ogni volta che qualcosa non va” …ma comunicare è necessario per uscire da una fase di stallo e spiccare definitivamente in volo

Recentemente è apparso un editoriale sul sito del National Institute of Mental Heath (NIMH), la principale agenzia governativa americana che si occupa di salute mentale, a cura di Thoma Insel, psichiatra e neuroscienziato di fama mondiale nonché attuale presidente del NIMH. L’articolo è una breve analisi circa lo stato attuale della psichiatria americana ma a mio modesto parere può fornirci spunti di riflessione interessanti. Inoltre precede di poco la pubblicazione di un altro noto post che ha messo seriamente in discussione un baluardo della psichiatria attuale, ovvero l’utilizzo del DSM-IV, il più noto sistema di classificazione internazionale sui disturbi mentali.
Insel è convinto che la psichiatria americana stia vivendo una lenta ma progressiva rinascita, una sorta di trasformazione/metamorfosi inneuroscienza clinica“, dovuta al fatto che sempre più medici ricercatori in possesso di un dottorato in neuroscienze decidono di specializzarsi in psichiatria, nonostante il forte calo di iscrizione di cui tale branca della medicina è vittima. 

Il direttore del NIHM risponde così a quanto pubblicato dalla prestigiosa rivista britannica The Lancet secondo cui, al contrario, l’attuale momento della psichiatria è caratterizzato da una crisi identitaria internazionale che ha come principale indicatore proprio la diminuzione delle iscrizioni alla specialità universitarie e come cause alcuni fattori, tra cui la presunta pseudo-scientificità della disciplina, la scarsa remuneratività della professione, nonché la sensazione di trovarsi di fronte ad una disciplina dai confini poco delineati, in continua evoluzione e la cui autorevolezza e solidità scientifica viene messa continuamente in discussione. Retroscena che sta spingendo sempre più studenti verso aree di ricerca recenti come le neuroscienze cliniche.

Quest’ultime, in particolare, riscuoterebbero sempre più interesse nelle nuove generazioni e giocherebbero di rimessa, contribuendo ad alimentare e a rafforzare gli stereotipi e le criticità legate alla psichiatria “classica”. Da qui il monito degli psichiatri inglesi ad abbracciare con forza il metodo delle scienze naturali e a ri-proporsi con autorevolezza come scienza biomedica, sviluppando maggiormente rispetto al passato solide teorizzazioni e pratiche cliniche standardizzate e di provata efficacia.

Insel, da parte sua, pur condividendo il dato generale negativo relativo alla diminuzione degli iscritti, ritiene la situazione della psichiatria americana in crisi quanto quella britannica, ma più intrisa di entusiamo e di speranza. Essa 
appare più capace di adattarsi alle recenti scoperte provenienti dai vari campi di ricerca e di sviluppare modelli di intervento efficaci e innovativi. Del resto, chi in passato sceglieva oncologia o settori specifici della chirurgia, oggi viene sempre più attratto dal potenziale legame tra psichiatria e neuroscienze e dalla possibilità di operare nell’interfaccia tra medicina clinica e ricerca sperimentale. Il tutto a beneficio della disciplina stessa.
Per questo motivo, sempre secondo l’autore, il giovane ricercatore che vorrà “lasciare un segno” tangibile del proprio operato non potrà che farlo in questo affascinante campo di studi, che appare attualmente più fruttuoso e meno saturo rispetto ad altri, e più attrezzato rispetto al passato a rispondere ad alcune questioni critiche (“The questions are profound, the patients are fascinating, and the tools are finally available to make unprecedented progress.”)

I tempi sembrano quindi maturi per promuovere un radicale cambiamento, ma nel frattempo si è acceso un interessante dibattito (ripreso dalla rivista italiana Psicoterapia e Scienze Umane) su quale possa essere la via migliore per uscire da questa “crisi identitaria”. A mio modesto parere, è senz’altro positivo e incoraggiante il dialogo che si sta instaurando tra neuroscienze e psichiatria, così come è legittimo aspettarsi che la psichiatria, da sempre orientata – a differenza della psicologia – a studiare le malattie psichiche come derivanti da un malfuzionamento fisiologico del sistema nervoso centrale, voglia rinnovarsi e acquisire maggior autorevolezza scientifica proprio grazie all’apporto delle neuroscienze. Ma non vi è forse il rischio di cadere nuovamente in un riduzionismo metodologico, a discapito di una reale comprensione della sofferenza umana?!… Rischio che si concretizza ogniqualvolta appaiono ricerche in cui, ad esempio, si spiega un’esperienza unica, soggettiva e personale come l’innamoramento nei soli termini neuro-fisiologici (autorevolissimo premio Ig-nobel!)


Probabilmente la crisi di cui parlano gli autori e che è in qualche modo appare palpabile se prendiamo in considerazione alcuni aspetti (si prenda in considerazione, ad esempio, questi articoli: http://www.carmelodimauro.com/?p=2272http://www.psychomedia.it/pm/modther/probpsiter/ruoloter/rt112-09.htm) non va ricondotta né alle diminuzione delle immatricolazioni, né alla forte attrattiva delle neuroscienze, né tanto meno alla possibilità di applicare totalmente un metodo standardizzato e “scientifico” alla cura dei disturbi mentali, ma va fatta risalire ad una crisi ancora più ampia e previa e che vede principalmente riguardare l’oggetto di studio della disciplina stessa: l’uomo e i suoi modi di essere-nel-mondo… Ente piuttosto particolare rispetto a qualsiasi altro ente, e che ormai da diversi anni la ricerca scientifica e diverse speculazioni filosofiche hanno dimostrato non essere più indagabile né secondo modalità pseudo-scientifiche né tantomeno nei soli termini anatomo-fisiologici di stampo riduzionista,  secondo cui “noi siamo il nostro cervello, cosicché un disturbo mentale è SOLO un’alterazione a livello neuro-fisiologico”Pena questo senso di imprendibilità e di sfuggevolezza dell’uomo e della sua sofferenza! 

Come suggerito da Liccione (2012), quando si parla di esperienza umana l’indagine scientifica in terza persona (il cosa) non può che accompagnarsi all’indagine scientifica in prima persona (il Chi?). Riprendendo la differenza ontologica di Martin Heidegger (1889-1976), se ci si limita a spiegare l’uomo come si spiega una qualsiasi altra cosa, nei termini della semplice-presenza, riducendolo e rinunciando così a comprenderlo per come si dà originariamente e effettivamente al mondo (progetto-gettato), nei suoi modi possibiliriuscirà difficile comprendere adeguatamente il senso della sua sofferenza e l’effetto che fa una sua particolare esperienza. Perchè allora non fare un ulteriore passo, nel campo della salute mentale, e non appropriarsi di un metodo (Liccione, 2011) capace di far dialogare discipline diverse come quelle che studiano l’uomo in terza persona (psicologia sperimentale, neuroscienze – eccole! – biologia, neurochimica) con quelle che studiano l’uomo nei suoi modi esistenziali, siano essi esperienziali o narrativi (approcci in prima persona). Perché non combinare il contributo dato da discipline quali le neuroscienze, la biologia, la neurochimica o la psicologia dello sviluppo, con quello dato da approcci filosofici e umanistici quali la fenomenologia e l’ermeneutica? A maggior ragione se consideriamo il fatto che sono le stesse neuroscienze (scienza in terza persona) ad essersi ultimamente avvicinate agli approcci ermeutico-fenomenologici (scienze in prima persona) per dare un senso ai risultati emersi dalle loro ricerche (gli studi di GalleseGallagher & Zahavy, The phenomenological mind, 2008; Rizzolatti & Sinigaglia, So quel che fai, 2006). Fenomenologia che, non va dimenticato, costituisce fin dagli albori della psichiatria una fonte preziosissima di riflessioni psicopatologiche (si pensi ad esempio a Jaspers e alla sua opera “Psicopatologia Generale”  – di cui ricorre il centenario (1913-2013) – o al pensiero di Biswanger) e che proprio nel corso degli ultimi anni è tornata prepotentemente alla ribalta obbligando tutti ad un serio esame di “coscienza”. (Si veda questo articolo apparso recentemente su Schizoprenia Bulletin e che si interroga proprio sull’oggetto di studio della psichiatria e sulla necessità di riscoprire la psicopatologia.)

E’ questo l’obiettivo del metodo cognitivo-neuropsicologicoproposto come nuovo modello terapeutico: permettere il dialogo tra discipline che si occupano quasi della stessa cosa all’interno di una cornice teorica che pone come criteri base sia la validità empirica che l’interdisciplinarità, senza mai scordare la duplice appartenenza dell’uomo all’ordine naturale (biologia, neuro-chimica, psicologia sperimentale ecc.) e a quello psichico (culturale, storico, sociale, fenomenologico, ecc.), al di là di qualsiasi dualismo. Come spiega Liccione (2011), il linguaggio delle neuroscienze e quello della psicologia non sono due linguaggi impenetrabili, anzi, “poiché il campo delle scienze è per sua natura plurale, le scienze umane possono dialogare con le scienze biologiche e in specifico con le scienze del sistema nervoso”. 

I disturbi mentali non potranno allora che configurarsi all’interno di un continuum i cui estremi saranno le patologie non-storiche da un lato e le patologie storiche dall’altro, oltre alle patologie che si caratterizzano per un deficit dell’ipseità primaria (ad es. disturbo autistico). Le prime, come ad esempio un trauma cranico, saranno spiegabili principalmente in termini “bio”, accadendo nel silenzio della storia individuale, mentre i motivi eziopatogenetici delle seconde (ad es. disturbo alimentare) saranno prevalentemente comprensibili attraverso le scienze umane. E’ chiaro che la maggior parte dei disturbi mentali si collocherà in mezzo, costringendo il clinico a confrontarsi sia con  “la cosa” che con il “Chi”, ossia con la duplice natura dell’essere umano.

A mio modesto parere è questa la vera sfida da affrontare: considerare l’uomo nella sua complessità e nella sua primaria apertura al mondo, di natura prevalentemente pre-riflessiva. Sia le neuroscienze che la fenomenologia non bastano pertanto da sole, ma co-occorrono all’interno di un quadro teorico e metodologico che pone come principali attori l’interdisciplinarità e la ricerca scientifica di base. Da questa unione si aprirebbero nuove direzioni di senso grazie alle quali appare finalmente possibile comprendere adeguatamente l’originaria relazione dell’uomo con la propria esistenza.

Pin It on Pinterest