Deficit a chi?!

Deficit a chi?!

Alle gravi cerebrolesioni si associa spesso una sindrome caratterizzata da una compromissione clinico-funzionale che può riguardare sia l’area senso-motoria che quella cognitiva-comportamentale, nonché compromissioni a livello emotivo e motivazionale.

Un recente articolo apparso sulla rivista The Psychology, pubblicato dalla The British Psychological Society (BPS), mette tuttavia in luce alcuni fenomeni che la neuropsicologia classica, pur conoscendoli da tempo, non può che classificare come “paradossali”.

The study of individuals with cerebral pathology has traditionally been embedded in the lesion-deficit model. While this has provided valuable insights into our understanding of the organisation of function in the human brain, it has its drawbacks.”

Come fa giustamente notare l’articolo, lo studio di soggetti con lesione cerebrali è tradizionalmente letto secondo il modello lesione/deficit, secondo cui lesioni o disfunzioni del sistema nervoso portano inevitabilmente a deficit in termini di prestazione (secondo uno schema quasi-causale).

Mentre questo ha senz’altro fornito preziose conoscenze circa l’organizzazione funzionale del cervello umano, non si possono trascurare alcuni svantaggi. Focalizzando l’attenzione solo sugli aspetti “negativi” e deficitari, c’è il rischio di trascurare i cambiamenti “positivi” susseguenti alla riorganizzazione plastica neurale. Può essere inoltre problematico trovare sempre una relazione diretta tra lesione e deficit (correlazione anatomo/clinica), così come non è insolito che gli attuali modelli cognitivi/computazionali falliscano nel comprendere un particolare deficit costringendo i ricercatori a continui riadattamenti teorici. Limitarsi ai deficit può inoltre incidere negativamente sulla ricerca di quali strategie compensative e adattive una persona con lesione cerebrale può adottare per migliorare la propria condizione.

L’intento degli autori è allora quello di proporre esempi “paradossali” capaci di mettere in crisi la visione riduttiva tradizionale focalizzata prevalentemente sul legame diretto lesione-deficit e proporre una paradigma teorico/riabilitativo (neuropsicologia positiva) volto maggiormente al cambiamento e al riadattamento neurofunzionale. Una visione che, secondo gli autori, sposa le recenti scoperte nel campo della plasticità e del dinamismo neurale.

“Influential views within contemporary neuroscience view the brain as a dynamic, adaptive and evolving system shaped by its environment and itself. Damage to the brain may upset one dynamic state and cause difficult-to-predict effects as it settles into a new state. Without minimising the very real losses that often arise, the paradoxical enhancements noted above emphasise the importance of looking at change rather than simply focusing on deficit. This echoes a broader approach of positive psychology and positive clinical psychology that places emphasis on dispositional optimism, flourishing, resilience and functional reserve in coping with impairment (Seligman & Csikzentmihalyi, 2000; Wood & Tarrier, 2010).

The emerging fields of ‘positive neurology’ and ‘positive neuropsychology’ in the rehabilitation of the brain-damaged individual have a similar emphasis. These fields suggest that we focus on intact skills, on past strengths and interests, and on how both rehabilitation efforts and domestic, social and work environments can be altered to take these skills and talents into account.”

Alcuni pazienti afasici, ad esempio, hanno ottenuto una performance migliore rispetto ad un campione di soggetti sani in un compito che prevedeva l’utilizzo di segnali facciali per rivelare la presenza di inganno nelle videoregistrazioni di persone invitate a mostrare o dissimulare emozioni forti (Etcoff et all., 2000, ma già rilevata da Oliver Sacks). Moscovitch e collaboratori (1997) hanno inoltre riportato il caso di un paziente agnosico e dislessico ottenere prestazioni migliori rispetto al gruppo di controllo in un compito che prevedeva di rivelare volti nascosti in un dipinto illustrante un bosco.

Paradossale appare inoltre il fenomeno secondo cui “due lesioni cerebrali sono meglio di una“. Gli autori citano uno studio di Sprague (1966) che ha dimostrato (nel gatto) come un disturbo percettivo conseguente ad una lesione cerebrale possa essere risolto da un’altra lesione sottocorticale. Un principio simile è talvolta usato nel trattamento di una particolare forma di epilessia quando il corpo calloso, che collega i due emisferi, è tagliato per limitare la diffusione delle convulsioni (Matthews, 2008). Vuillemier (1996) riporta il caso di un paziente colpito da ictus che ha visto risolvere il proprio neglect sinistro successivamente ad un altro infarto cerebrale a livello frontale. Altri esempi curiosi di questa particolare forma paradossale sono riportate negli articoli di  Nakaschima (1993), Costantino e Luigi (2003) e Choi (2008).

Ulteriori prove di come non sia così diretta l’associazione lesione SNC-inevitabile deficit di prestazione provengono anche dal campo di ricerca che studia le performance nei soggetti con menomazioni a livello sensoriale. Come opportunamente segnalano gli autori, le persone con cecità o sordità hanno inevitabili limitazioni nella vita di tutti i giorni ma nel corso degli ultimi anni sono stati pubblicati molti articoli che evidenziano come in diversi compiti le loro performance siano attendibilmente migliori rispetto a quelle del gruppo di controllo. “L’orecchio assoluto”, ad esempio, è molto più frequente in musicisti ciechi rispetto a quelli vedenti (Hamilton, 2004). Fieger (2006) ha evidenziato come le persone non vedenti siano molto più abili a localizzare i suoni, soprattutto quelli che provengono dalla periferia, rispetto a soggetti vedenti, così come sembrano possedere una miglior capacità di discriminazioni tattili e olfattive.

Senza minimizzare e negare le perdite reali che spesso sorgono dopo una cerebrolesione congenità o acquisita, i ricercatori invitano i clinici a focalizzarsi maggiormente sulle risorse attuali e sulle competenze pre-morbose del paziente, al fine di strutturare un intervento diagnostico e riabilitativo meno basato sui deficit ma più connotato da una visione individuale, sociale e “progettuale”. Non a caso gli autori parlano di lesione cerebrale come un evento che riduce drammaticamente le possibilità di azione nel mondo.

Ora, non è mia intenzione validare le assunzioni della recente prospettiva teorica e applicativa della “psicologia positiva”, tanto meno trovare legami tra questa proposta e altri percorsi d ricerca, anche se mi pare che all’interno di questa impostazione vi sia senz’altro una maggior “tensione verso il futuro” rispetto ad altre correnti di pensiero classiche. Mi riferisco in particolar modo all’attenzione rivolta verso fattori quali le potenzialità e le abilità individuali, oltre all’importanza assegnata al soddisfacimento delle proprie aspirazioni personali.
Rimane tuttavia una psicologia disincarnata e de-storicizzata, che assegna ad un ordine razionale il primato sull’esperienza e che a detta di molti studiosi non afferra più la reale condizione umana.

Più modestamente, prendo spunto dall’articolo pubblicato dalla BPS limitandomi a constatare una certa presa di posizione, anche da parte di autorevoli neuroscienziati, nei confronti delle teorizzazioni classiche proposte dalla neuropsicologia tradizionale, che vedono sostanzialmente l’essere umano separato dal mondo.  In quest’ottica, un evento come un ictus provoca in maniera diretta una alterazione nel cogliere “normalmente” il mondo (deficit) e la conseguente determinazione di un sintomo. Il mondo non viene quindi più colto “normalmente”.

Una visione più fenomenologia ci invita invece a considerare l’essere umano in continuo rapportarsi con il mondo, secondo un’originaria apertura. Non vi è mai frattura tra uomo e mondo, ma un “essere-nel-mondo”,  sia nelle cerebrolesioni acquisite che in quelle congenite. Ogni essere umano è soprattutto un esser-ci, che si determina sempre a partire dalle sue possibilità. Un progetto-gettato che si serve delle cose del mondo per trascendere la propria condizione di gettatezza. Un essere che è ogni volta in un’apertura di mondo diversa, nell’intendo di trascendere la propria condizione secondo le proprie possibilità.

Detto questo, sembra piuttosto inopportuno e riduttivo considerare una lesione nei soli termini di deficit strutturale/funzionale (che rimanda in qualche modo ad un essere separato al mondo). Il deficit si manifesta a livello esistenziale, nell’alterazione dell’apertura di mondo secondo una visione che è soprattutto ontologica.

A mio modesto parere, quindi, gli esempi clinici a cui fanno riferimento gli autori sopra non sono tanto a favore di una nuova branca della psicologia centrata sul concetto di “positività” (emozioni positive, atteggiamento positivo, aspetti positivi di una particolare situazione, ecc.), quanto indicativi di un’alterazione nei modi di fare esperienza (ipseità) che avviene primariamente a livello ontologico, quindi ancora più a monte di qualsiasi “psicologia” di stampo cartesiano/kantiano.

La lesione cerebrale non comporta solo un deficit nella performance, ma anzitutto una diminuzione nell’apertura di mondo che comporta a sua volta un cambiamento dei modi di fare esperienza (es. ritardo mentale, disturbo autistico). Al variare delle condizioni di possibilità, si appalesa un mondo “diverso” e si configurano nuove modalità di essere nel mondo. Nei casi sopra descritti le condizioni di possibilità “originarie” vengono drammaticamente mutate dalla lesione cerebrale o da una menomazione congenita. Ciò comporta modi di essere nel mondo diversi ma non per questo unicamente comprensibili in termini deficitari o sintomatici.

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