Come terapeuta, nel corso degli ultimi anni mi sono confrontato con le innovazioni teoriche e metodologiche proposte del modello cognitivo-neuropsicologico, la cui originalità consiste nel recupera
re e rinnovare la concezione dell’uomo come un essere basicamente storico, incarnato e situato (un esser-ci), così come la tradizione fenomenologica sostiene da circa un secolo, e metterla costantemente in dialogo con le più recenti scoperte provenienti dal mondo neuroscientifico. Sono le stesse neuroscienze a “chiedere” un nuovo interlocutore capace di dar senso a quanto scoperto (es, neuroni specchio, emoting, ecc), anche alla luce delle inadeguatezze del classico paradigma cognitivo, sia nelle sua variante standard che costruttivista.


Il metodo Neuropsicologico prevede pertanto un continuo dialogo tra discipline che studiano l’uomo in terza persona (neuroscience, biologia, neuro chimica, psicologia cognitiva, ecc) e le scienze che si occupano dell’uomo in prima persona, come la fenomenologia e la psicologia in senso lato.


Come si esplica tutto questo nell’attività clinica? Si rende manifesto un alternativo modello di definizione del malessere mentale, certamente non in linea con il classico modello dualistico che prevede la distinzione tra organico/funzionale, proprio della tradizione cartesiana/kantiana, ma più fecondo e originario. Una psicopatologia meglio inquadrabile all’interno di un continuum neuro-psico-patologico, in cui convive “la duplice appartenenza dell’essere umano sia al bios che al logos”, e dove i cambiamenti emotivo-comportamentali appaiono intelligibili sia alla luce di “motivi” e accadimenti umani e storici, sia in conseguenza di “cause” fisiche e biologiche. La storicità, quindi, come variabile fondamentale per una adeguata diagnosi. Ecco quindi la necessità di distinguere tra patologie storiche e patologia non-storiche (Liccione, 2012).


Detto questo, non può che farmi piacere e appassionarmi questo articolo (The Psychologist) pubblicato da una delle più autorevoli associazioni britanniche di psicologia scientifica (BPS), e ripresa a sua volta da MindHacks, la quale sembra interrogarsi appunto su come “far dialogare” e soprattutto, far fruttare, i contributi della rivoluzione neuroscientifica sull’attività clinica


” (…) Indeed, it could be argued that integrating psychological and neuroscientific information is the only way in which a truly holistic explanation of mental health problems can be proposed, as the brain is the interface at which genetic and environmental influences interact to produce thoughts, perceptions, beliefs and feelings. And there is no reason to assume that a brain mechanism can only be targeted using a ‘biological’ treatment – psychosocial interventions change the brain too. Importantly, this is not to privilege neuroscientific models over psychological models of symptoms. Each discipline has much to learn from the other, since they address the same questions but in a complementary fashion, at different levels of explanation. Ultimately they require integration: ‘mindless’ neuroscience and ‘brainless’ psychology are both incomplete explanatory frameworks. (…)”
“A useful notion is to consider different types of causes of symptoms lying on a spectrum, the extremes of which I will term ‘proximal’ and ‘distal’.” 
CIT. https://thepsychologist.bps.org.uk/volume-28/april-2015/what-has-neuroscience-ever-done-us

Pur focalizzandosi sul disturbo depressivo, è una questione che credo possa essere generalizzata all’intero ambito della salute mentale. Il rischio, a mio modesto parere, è quello di arenarsi in aporie filosofiche e metodologiche. Recuperare una visione dell’uomo più originaria e genuina (essere-nel-mondo, come la fenomenologia insegna) e appropriarsi definitivamente di un concetto più ampio di neuro-psicologia (“traduzione”), che prevede un continuum tra patologie storiche-non storiche, gioverebbe invece sia alle neuroscienze che alla psicologia stessa.

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