da Dott. Gianni Tosca | Mar 29, 2015 | Blog, PCN
Come terapeuta, nel corso degli ultimi anni mi sono confrontato con le innovazioni teoriche e metodologiche proposte del modello cognitivo-neuropsicologico, la cui originalità consiste nel recuperare e rinnovare la concezione dell’uomo come un essere basicamente storico, incarnato e situato (un esser-ci), così come la tradizione fenomenologica sostiene da circa un secolo, e metterla costantemente in dialogo con le più recenti scoperte provenienti dal mondo neuroscientifico. Sono le stesse neuroscienze a “chiedere” un nuovo interlocutore capace di dar senso a quanto scoperto (es, neuroni specchio, emoting, ecc), anche alla luce delle inadeguatezze del classico paradigma cognitivo, sia nelle sua variante standard che costruttivista.
Il metodo Neuropsicologico prevede pertanto un continuo dialogo tra discipline che studiano l’uomo in terza persona (neuroscience, biologia, neuro chimica, psicologia cognitiva, ecc) e le scienze che si occupano dell’uomo in prima persona, come la fenomenologia e la psicologia in senso lato.
Come si esplica tutto questo nell’attività clinica? Si rende manifesto un alternativo modello di definizione del malessere mentale, certamente non in linea con il classico modello dualistico che prevede la distinzione tra organico/funzionale, proprio della tradizione cartesiana/kantiana, ma più fecondo e originario. Una psicopatologia meglio inquadrabile all’interno di un continuum neuro-psico-patologico, in cui convive “la duplice appartenenza dell’essere umano sia al bios che al logos”, e dove i cambiamenti emotivo-comportamentali appaiono intelligibili sia alla luce di “motivi” e accadimenti umani e storici, sia in conseguenza di “cause” fisiche e biologiche. La storicità, quindi, come variabile fondamentale per una adeguata diagnosi. Ecco quindi la necessità di distinguere tra patologie storiche e patologia non-storiche (Liccione, 2012).
Detto questo, non può che farmi piacere e appassionarmi questo articolo (The Psychologist) pubblicato da una delle più autorevoli associazioni britanniche di psicologia scientifica (BPS), e ripresa a sua volta da MindHacks, la quale sembra interrogarsi appunto su come “far dialogare” e soprattutto, far fruttare, i contributi della rivoluzione neuroscientifica sull’attività clinica.
” (…) Indeed, it could be argued that integrating psychological and neuroscientific information is the only way in which a truly holistic explanation of mental health problems can be proposed, as the brain is the interface at which genetic and environmental influences interact to produce thoughts, perceptions, beliefs and feelings. And there is no reason to assume that a brain mechanism can only be targeted using a ‘biological’ treatment – psychosocial interventions change the brain too. Importantly, this is not to privilege neuroscientific models over psychological models of symptoms. Each discipline has much to learn from the other, since they address the same questions but in a complementary fashion, at different levels of explanation. Ultimately they require integration: ‘mindless’ neuroscience and ‘brainless’ psychology are both incomplete explanatory frameworks. (…)”
“A useful notion is to consider different types of causes of symptoms lying on a spectrum, the extremes of which I will term ‘proximal’ and ‘distal’.”
CIT. https://thepsychologist.bps.org.uk/volume-28/april-2015/what-has-neuroscience-ever-done-us
Pur focalizzandosi sul disturbo depressivo, è una questione che credo possa essere generalizzata all’intero ambito della salute mentale. Il rischio, a mio modesto parere, è quello di arenarsi in aporie filosofiche e metodologiche. Recuperare una visione dell’uomo più originaria e genuina (essere-nel-mondo, come la fenomenologia insegna) e appropriarsi definitivamente di un concetto più ampio di neuro-psicologia (“traduzione”), che prevede un continuum tra patologie storiche-non storiche, gioverebbe invece sia alle neuroscienze che alla psicologia stessa.
Psicologo e Psicoterapeuta. Coniuga l’attività clinica privata con quella specialistica presso Enti socio-sanitari della provincia di Piacenza.
da Dott. Gianni Tosca | Nov 28, 2013 | Blog, dipendenze, PCN
La psicoterapia cognitiva neuropsicologica (PCN), lungi dal considerare i disturbi mentali secondo una rigida distinzione tra organico e funzionale, parla di neuropsicopatologia: la duplice appartenenza dell’essere umano sia all’ordine fisico che a quello psichico permette di configurare la psicopatologia secondo un continuum ai cui estremi troviamo le patologie di tipo non storico e quelle di tipo storico.
Le alterazioni emotivo-comportamentali associate alle patologie non storiche (ad es. trauma cranico, ictus cerebrale, ecc.) sono spiegabili principalmente attraverso le discipline bio e conseguono a qualche causa eziopatogenetica, all’essere corpo soggetto alle leggi della fisica e della natura… Interessano la progettualità dell’individuo e comportano un’alterazione dei suoi modi di essere. Secondo l’approccio ermeneutico-fenomenologico, infatti, che è alla base della PCN, l’essere umano è un progetto-gettato: nasce in uno specifico contesto storico ed ha ogni volta da essere, secondo questa o quella apertura di mondo. Condivide fin da subito una rete di rimandi culturali comuni ed è proprio in funzione di questo orizzonte pre-determinato che il mondo gli si appalesa nei termini della possibilità e della strumentalità (pre-comprensione). In seguito ad una lesione cerebrale, tuttavia, che avviene nel silenzio della storia individuale, l’esser-ci muta, e così l’insieme delle possibilità d’azione. Cambiando i modi di fare esperienza “costitutivi”, si arriva ad incontrare il mondo inevitabilmente in termini diversi ma coerenti con la nuova apertura… ecco allora spiegate le difficoltà tipiche associate, ad esempio, ad un trauma cranico: le perseverazione comportamentale, la disinibizione sociale, l’impulsività, la rigidità, ecc.
Le alterazioni identitarie associate alle patologie storiche, invece, come nel caso di un disturbo depressivo, di un disturbo alimentare o di un disturbo d’ansia, più che a cause di tipo fisico conseguono a motivazioni umane e sono pertanto comprensibili attraverso le scienze umane. La sofferenza di quest’ultime, cioè, non può essere spiegata nei soli termini neurofisiologici, in quanto si tratterebbe di una spiegazione insufficiente, ma è veicolata dai modi di essere (storici) del paziente e dal modo in cui l’esperienza pre-riflessiva (l’esperienza) viene riconfigurata narrativamente in un racconto (identità narrativa). In questo caso, le alterazioni emotive comportamentali non riguardano tanto i modi della progettualità quanto quelli dell’identità personale e dipendono a loro volta da un’ulteriore dialettica, evidenziata recentemente dalla ricerca neuroscientifica, che riguarda i modi di essere emotivamente situati dell’uomo e costitutivi del suo esser-ci: l’ipseità e l’alterità. Ecco allora, ad esempio, la sofferenza patologica legata ad un modo di essere focalizzato eccessivamente sul corpo e sugli stati viscerali, che può dar origine a psicopatologie di tipo fobico (disturbo d’ansia generalizzato, disturbo di panico, fobie, ecc.) o depressivo; oppure patologie che originano in funzione di un’alterità eccessivamente definitoria (disturno ossessivo) o, come nel caso dei disturbi alimentari, eccessivamente fluttuante.
Dato che la maggior parte delle manifestazioni neuropsicopatologiche si trova nella via di mezzo tra storico e non storico, appare di fondamentale importanza assumere un atteggiamento il più possibile dialettico e costruttivo, facendo dialogare tra loro le discipline che parlano dello stesso fenomeno ma a livelli diversi. La neuropsicologia ermeneutica risponde a tale bisogno e promuove la traduzione tra le discipline “bio” e quelle “psico”.
Un esempio che ci permette di apprezzare la ricchezza esplicativa di tale approccio è dato dalla tossicodipendenza (in particolare, quella da cocaina) e un recente studio pubblicato sulla rivista Biological Psychiatric ci fornisce dati scientifici su cui è possibile riflettere per sostenere la continuità tra patologie storiche e non storiche. Come noto, può essere molto difficile per le persone prevedere le conseguenze a lungo termine del consumo di sostanze stupefacenti. In generale, i consumatori, dopo aver sperimentato i potenti effetti euforizzanti per un periodo di tempo anche molto breve (euforia, piacere, generale senso di benessere, ecc), possono ben presto sviluppare una vera e propria dipendenza e compromettere drammaticamente la loro vita. Tale condizione patologica comporta una modalità di autossomministrazione reiterata, che usualmente risulta in tolleranza, astinenza e comportamento compulsivo di assunzione della sostanza di abuso. Secondo la “Relazione al Parlamento 2013 sull’uso di sostanze stupefacenti e tossicodipendenze in Italia”, elaborata ogni anno dal Dipartimento Politiche Antidroga, in Italia le persone con problemi di tossicodipendenza in trattamento risultano essere circa 438.500. Di queste, 81.000 sono dipendenti da cocaina, una delle sostanze psicoattive maggiormente utilizzate dagli utenti in trattamento (14,8%), insieme agli oppiacei (74,4%) e alla cannabis (8,7%).
Dal punto di vista neurobiologico, i meccanismi sottostanti alla dipendenza da cocaina riguardano un neurotrasmettirore in particolare, la dopamina, che nel cervello esercita un ruolo importante in diversi abiti (umore, comportamento, cognizione, movimento volontario, ecc.), tra cui appunto la regolazione dei processi motivazionali e di ricompensa (reward circuit). Stimoli che producono gratificazione e piacere (il cibo buono, il sesso, la musica, ma anche le sostanza stupefacenti) provocano il rilascio della dopamina all’interno delle sinapsi. In genere, la dopamina viene recuperata dal neurone trasmittente da una proteina specializzata ma in presenza di cocaina questo meccanismo si inceppa: la cocaina si attacca al trasportatore della dopamina bloccandone il normale processo di ritorno, con un conseguente accumolo di dopamina nella sinapsi. Dal punto di vista neuronale, sono diversi i sistemi cerebrali coinvolti: l’area tegmentale ventrale del mesencefalo (VTA) e il nucleo accubens (facenti parte del circuito di gratificazione); l’amigdala e l’ippocampo (modulatori di impulsi, emozioni e memoria); la corteccia pre-frontale (pianificazione e controllo).
Proprio l’indagine delle aree cerebrali coinvolte e le loro modificazioni nel tempo sono state oggetto di studio della ricerca sopra citata: comunemente si ritiene che le persone che sviluppano una dipendenza non potranno mai eliminare la loro attrazione per la sostanza abusata. Nuovi risultati forniscono ulteriore sostegno a questa ipotesi e suggeriscono che l’astinenza non si traduce in una normalizzazione completa dei circuiti cerebrali.
Krishna Patel e colleghi, dell’Istituto di Living / Hartford Hospital, hanno infatti confrontato le risposte neurali (fMRI) di tre gruppi di persone durante un compito di stimolo-ricompensa. I tre gruppi erano costituiti da 47 controlli sani , 42 consumatori di cocaina e 35 ex- consumatori di cocaina astinenti da una circa 4 anni. Hanno inoltre confrontato i tre gruppi in base ai loro livelli di impulsività e di risposta alla ricompensa tramite test psicologici.
Rispetto al gruppo di controllo, i ricercatori hanno osservato un’attivazione anomala in diverse regioni cerebrali coinvolte nel circuito di ricompensa (reward circuit) sia negli individui cocainomani che negli individui astinenti: quest’ultimi, in particolare, continuano a manifestare differenze in un sottoinsieme di quelle stesse regioni a distanza di anni. Inoltre, in entrambi i gruppi sono stati osservati elevati livelli di impulsività. L’insieme di questi dati suggerisce che l’astinenza prolungata da cocaina non normalizza totalmente il circuito della ricompensa, ma può normalizzarlo in parte. I cambiamenti neuronali persistono nonostante un periodi di astinenza e tutto fa pensare che il recupero dalla dipendenza sia un processo permanente.
Dal punto di vista cognitivo neuropsicologico, possiamo ricondurre tali conclusioni alla bontà della teoria che concepisce l’eziopatologia della tossicodipendenza al confine tra patologia storica e patologia non storica. Dopo il periodo di assunzione iniziale, originato spesso da motivazioni umane associate ad un insieme di stati emotivi (senso di vuoto, ansia, noia, bisogno di “sballarsi”, o di essere sempre all’altezza), le alterazioni emotive-comportamentali della dipendenza trovano miglior spiegazione nei modi alterati della progettualità rispetto ai modi dell’identità, comunque presenti, e tali alterazioni tendono a perdurare nel tempo.
In altri termini, l’abuso della sostanza dovuto inizialmente a mancate o deficitarie riconfigurazioni narrative dell’esperienza – che comportano senso di vuoto, ansia, agitazione, da modulare mediante l’assunzione della sostanza stupefacente – lascia ben presto spazio ad un’alterazione ancora più basica e che riguarda i modi della progettualità (dipendenza), evidenziabile anche a distanza di anni, i cui sub-strati neuronali si associano a coerenti aperture di mondo (limitazioni nella partecipazione sociale, difficoltà a pianificare le azioni, impulsività, ecc. tipiche di compromissioni a livello del circuito frontale-limbico).
Psicologo e Psicoterapeuta. Coniuga l’attività clinica privata con quella specialistica presso Enti socio-sanitari della provincia di Piacenza.
da Dott. Gianni Tosca | Lug 4, 2013 | Blog, PCN, psichiatria
Recentemente è apparso un editoriale sul sito del National Institute of Mental Heath (NIMH), la principale agenzia governativa americana che si occupa di salute mentale, a cura di Thoma Insel, psichiatra e neuroscienziato di fama mondiale nonché attuale presidente del NIMH. L’articolo è una breve analisi circa lo stato attuale della psichiatria americana ma a mio modesto parere può fornirci spunti di riflessione interessanti. Inoltre precede di poco la pubblicazione di un altro noto post che ha messo seriamente in discussione un baluardo della psichiatria attuale, ovvero l’utilizzo del DSM-IV, il più noto sistema di classificazione internazionale sui disturbi mentali.
Insel è convinto che la psichiatria americana stia vivendo una lenta ma progressiva rinascita, una sorta di trasformazione/metamorfosi in “neuroscienza clinica“, dovuta al fatto che sempre più medici ricercatori in possesso di un dottorato in neuroscienze decidono di specializzarsi in psichiatria, nonostante il forte calo di iscrizione di cui tale branca della medicina è vittima.
Il direttore del NIHM risponde così a quanto pubblicato dalla prestigiosa rivista britannica The Lancet secondo cui, al contrario, l’attuale momento della psichiatria è caratterizzato da una crisi identitaria internazionale che ha come principale indicatore proprio la diminuzione delle iscrizioni alla specialità universitarie e come cause alcuni fattori, tra cui la presunta pseudo-scientificità della disciplina, la scarsa remuneratività della professione, nonché la sensazione di trovarsi di fronte ad una disciplina dai confini poco delineati, in continua evoluzione e la cui autorevolezza e solidità scientifica viene messa continuamente in discussione. Retroscena che sta spingendo sempre più studenti verso aree di ricerca recenti come le neuroscienze cliniche.
Quest’ultime, in particolare, riscuoterebbero sempre più interesse nelle nuove generazioni e giocherebbero di rimessa, contribuendo ad alimentare e a rafforzare gli stereotipi e le criticità legate alla psichiatria “classica”. Da qui il monito degli psichiatri inglesi ad abbracciare con forza il metodo delle scienze naturali e a ri-proporsi con autorevolezza come scienza biomedica, sviluppando maggiormente rispetto al passato solide teorizzazioni e pratiche cliniche standardizzate e di provata efficacia.
Insel, da parte sua, pur condividendo il dato generale negativo relativo alla diminuzione degli iscritti, ritiene la situazione della psichiatria americana in crisi quanto quella britannica, ma più intrisa di entusiamo e di speranza. Essa appare più capace di adattarsi alle recenti scoperte provenienti dai vari campi di ricerca e di sviluppare modelli di intervento efficaci e innovativi. Del resto, chi in passato sceglieva oncologia o settori specifici della chirurgia, oggi viene sempre più attratto dal potenziale legame tra psichiatria e neuroscienze e dalla possibilità di operare nell’interfaccia tra medicina clinica e ricerca sperimentale. Il tutto a beneficio della disciplina stessa.
Per questo motivo, sempre secondo l’autore, il giovane ricercatore che vorrà “lasciare un segno” tangibile del proprio operato non potrà che farlo in questo affascinante campo di studi, che appare attualmente più fruttuoso e meno saturo rispetto ad altri, e più attrezzato rispetto al passato a rispondere ad alcune questioni critiche (“The questions are profound, the patients are fascinating, and the tools are finally available to make unprecedented progress.”)
I tempi sembrano quindi maturi per promuovere un radicale cambiamento, ma nel frattempo si è acceso un interessante dibattito (ripreso dalla rivista italiana Psicoterapia e Scienze Umane) su quale possa essere la via migliore per uscire da questa “crisi identitaria”. A mio modesto parere, è senz’altro positivo e incoraggiante il dialogo che si sta instaurando tra neuroscienze e psichiatria, così come è legittimo aspettarsi che la psichiatria, da sempre orientata – a differenza della psicologia – a studiare le malattie psichiche come derivanti da un malfuzionamento fisiologico del sistema nervoso centrale, voglia rinnovarsi e acquisire maggior autorevolezza scientifica proprio grazie all’apporto delle neuroscienze. Ma non vi è forse il rischio di cadere nuovamente in un riduzionismo metodologico, a discapito di una reale comprensione della sofferenza umana?!… Rischio che si concretizza ogniqualvolta appaiono ricerche in cui, ad esempio, si spiega un’esperienza unica, soggettiva e personale come l’innamoramento nei soli termini neuro-fisiologici (autorevolissimo premio Ig-nobel!)
Probabilmente la crisi di cui parlano gli autori e che è in qualche modo appare palpabile se prendiamo in considerazione alcuni aspetti (si prenda in considerazione, ad esempio, questi articoli: http://www.carmelodimauro.com/?p=2272; http://www.psychomedia.it/pm/modther/probpsiter/ruoloter/rt112-09.htm) non va ricondotta né alle diminuzione delle immatricolazioni, né alla forte attrattiva delle neuroscienze, né tanto meno alla possibilità di applicare totalmente un metodo standardizzato e “scientifico” alla cura dei disturbi mentali, ma va fatta risalire ad una crisi ancora più ampia e previa e che vede principalmente riguardare l’oggetto di studio della disciplina stessa: l’uomo e i suoi modi di essere-nel-mondo… Ente piuttosto particolare rispetto a qualsiasi altro ente, e che ormai da diversi anni la ricerca scientifica e diverse speculazioni filosofiche hanno dimostrato non essere più indagabile né secondo modalità pseudo-scientifiche né tantomeno nei soli termini anatomo-fisiologici di stampo riduzionista, secondo cui “noi siamo il nostro cervello, cosicché un disturbo mentale è SOLO un’alterazione a livello neuro-fisiologico”. Pena questo senso di imprendibilità e di sfuggevolezza dell’uomo e della sua sofferenza!
Come suggerito da Liccione (2012), quando si parla di esperienza umana l’indagine scientifica in terza persona (il cosa) non può che accompagnarsi all’indagine scientifica in prima persona (il Chi?). Riprendendo la
differenza ontologica di Martin Heidegger (1889-1976), s
e ci si limita a spiegare l’uomo come si spiega una qualsiasi altra cosa, nei termini della semplice-presenza, riducendolo e rinunciando così a comprenderlo per come si dà originariamente e effettivamente al mondo (progetto-gettato), nei suoi modi possibili, riuscirà difficile comprendere adeguatamente il senso della sua sofferenza e l’effetto che fa una sua particolare esperienza. Perchè allora non fare un ulteriore passo, nel campo della salute mentale, e non appropriarsi di un metodo (Liccione, 2011) capace di far dialogare discipline diverse come quelle che studiano l’uomo in terza persona (psicologia sperimentale, neuroscienze – eccole! – biologia, neurochimica) con quelle che studiano l’uomo nei suoi modi esistenziali, siano essi esperienziali o narrativi (approcci in prima persona). Perché non combinare il contributo dato da discipline quali le neuroscienze, la biologia, la neurochimica o la psicologia dello sviluppo, con quello dato da approcci filosofici e umanistici quali la fenomenologia e l’ermeneutica? A maggior ragione se consideriamo il fatto che sono le stesse neuroscienze (scienza in terza persona) ad essersi ultimamente avvicinate agli approcci ermeutico-fenomenologici (scienze in prima persona) per dare un senso ai risultati emersi dalle loro ricerche (gli studi di Gallese; Gallagher & Zahavy, The phenomenological mind, 2008; Rizzolatti & Sinigaglia, So quel che fai, 2006). Fenomenologia che, non va dimenticato, costituisce fin dagli albori della psichiatria una fonte preziosissima di riflessioni psicopatologiche (si pensi ad esempio a Jaspers e alla sua opera “Psicopatologia Generale” – di cui ricorre il centenario (1913-2013) – o al pensiero di Biswanger) e che proprio nel corso degli ultimi anni è tornata prepotentemente alla ribalta obbligando tutti ad un serio esame di “coscienza”. (Si veda questo articolo apparso recentemente su Schizoprenia Bulletin e che si interroga proprio sull’oggetto di studio della psichiatria e sulla necessità di riscoprire la psicopatologia.)
E’ questo l’obiettivo del metodo cognitivo-neuropsicologico, proposto come nuovo modello terapeutico
: permettere il dialogo tra discipline che si occupano quasi della stessa cosa all’interno di una cornice teorica che pone come criteri base sia la validità empirica che l’interdisciplinarità, senza mai scordare la duplice appartenenza dell’uomo all’ordine naturale (biologia, neuro-chimica, psicologia sperimentale ecc.) e a quello psichico (culturale, storico, sociale, fenomenologico, ecc.), al di là di qualsiasi dualismo. Come spiega Liccione (2011), il linguaggio delle neuroscienze e quello della psicologia non sono due linguaggi impenetrabili, anzi, “poiché il campo delle scienze è per sua natura plurale, le scienze umane possono dialogare con le scienze biologiche e in specifico con le scienze del sistema nervoso”.
I disturbi mentali non potranno allora che configurarsi all’interno di un continuum i cui estremi saranno le patologie non-storiche da un lato e
le patologie storiche dall’altro, oltre alle patologie che si caratterizzano per un
deficit dell’ipseità primaria (ad es. disturbo autistico).
Le prime,
come ad esempio un trauma cranico, saranno spiegabili principalmente in termini “bio”, accadendo nel silenzio della storia individuale, mentre i motivi eziopatogenetici delle seconde (ad es. disturbo alimentare) saranno prevalentemente comprensibili attraverso le scienze umane
. E’ chiaro che la maggior parte dei disturbi mentali si collocherà in mezzo, costringendo il clinico a confrontarsi sia con “la cosa” che con il “Chi”, ossia con la duplice natura dell’essere umano.
A mio modesto parere è questa la vera sfida da affrontare: considerare l’uomo nella sua complessità e nella sua primaria apertura al mondo, di natura prevalentemente pre-riflessiva. Sia le neuroscienze che la fenomenologia non bastano pertanto da sole, ma co-occorrono all’interno di un quadro teorico e metodologico che pone come principali attori l’interdisciplinarità e la ricerca scientifica di base. Da questa unione s
i aprirebbero nuove direzioni di senso grazie alle quali appare finalmente possibile comprendere adeguatamente l’originaria relazione dell’uomo con la propria esistenza.Psicologo e Psicoterapeuta. Coniuga l’attività clinica privata con quella specialistica presso Enti socio-sanitari della provincia di Piacenza.