Le alterazioni emotivo-comportamentali associate alle patologie non storiche (ad es. trauma cranico, ictus cerebrale, ecc.) sono spiegabili principalmente attraverso le discipline bio e conseguono a qualche causa eziopatogenetica, all’essere corpo soggetto alle leggi della fisica e della natura… Interessano la progettualità dell’individuo e comportano un’alterazione dei suoi modi di essere. Secondo l’approccio ermeneutico-fenomenologico, infatti, che è alla base della PCN, l’essere umano è un progetto-gettato: nasce in uno specifico contesto storico ed ha ogni volta da essere, secondo questa o quella apertura di mondo. Condivide fin da subito una rete di rimandi culturali comuni ed è proprio in funzione di questo orizzonte pre-determinato che il mondo gli si appalesa nei termini della possibilità e della strumentalità (pre-comprensione). In seguito ad una lesione cerebrale, tuttavia, che avviene nel silenzio della storia individuale, l’esser-ci muta, e così l’insieme delle possibilità d’azione. Cambiando i modi di fare esperienza “costitutivi”, si arriva ad incontrare il mondo inevitabilmente in termini diversi ma coerenti con la nuova apertura… ecco allora spiegate le difficoltà tipiche associate, ad esempio, ad un trauma cranico: le perseverazione comportamentale, la disinibizione sociale, l’impulsività, la rigidità, ecc.
Le alterazioni identitarie associate alle patologie storiche, invece, come nel caso di un disturbo depressivo, di un disturbo alimentare o di un disturbo d’ansia, più che a cause di tipo fisico conseguono a motivazioni umane e sono pertanto comprensibili attraverso le scienze umane. La sofferenza di quest’ultime, cioè, non può essere spiegata nei soli termini neurofisiologici, in quanto si tratterebbe di una spiegazione insufficiente, ma è veicolata dai modi di essere (storici) del paziente e dal modo in cui l’esperienza pre-riflessiva (l’esperienza) viene riconfigurata narrativamente in un racconto (identità narrativa). In questo caso, le alterazioni emotive comportamentali non riguardano tanto i modi della progettualità quanto quelli dell’identità personale e dipendono a loro volta da un’ulteriore dialettica, evidenziata recentemente dalla ricerca neuroscientifica, che riguarda i modi di essere emotivamente situati dell’uomo e costitutivi del suo esser-ci: l’ipseità e l’alterità. Ecco allora, ad esempio, la sofferenza patologica legata ad un modo di essere focalizzato eccessivamente sul corpo e sugli stati viscerali, che può dar origine a psicopatologie di tipo fobico (disturbo d’ansia generalizzato, disturbo di panico, fobie, ecc.) o depressivo; oppure patologie che originano in funzione di un’alterità eccessivamente definitoria (disturno ossessivo) o, come nel caso dei disturbi alimentari, eccessivamente fluttuante.
Dato che la maggior parte delle manifestazioni neuropsicopatologiche si trova nella via di mezzo tra storico e non storico, appare di fondamentale importanza assumere un atteggiamento il più possibile dialettico e costruttivo, facendo dialogare tra loro le discipline che parlano dello stesso fenomeno ma a livelli diversi. La neuropsicologia ermeneutica risponde a tale bisogno e promuove la traduzione tra le discipline “bio” e quelle “psico”.
Un esempio che ci permette di apprezzare la ricchezza esplicativa di tale approccio è dato dalla tossicodipendenza (in particolare, quella da cocaina) e un recente studio pubblicato sulla rivista Biological Psychiatricci fornisce dati scientifici su cui è possibile riflettere per sostenere la continuità tra patologie storiche e non storiche. Come noto, può essere molto difficile per le persone prevedere le conseguenze a lungo termine del consumo di sostanze stupefacenti. In generale, i consumatori, dopo aver sperimentato i potenti effetti euforizzanti per un periodo di tempo anche molto breve (euforia, piacere, generale senso di benessere, ecc), possono ben presto sviluppare una vera e propria dipendenza e compromettere drammaticamente la loro vita. Tale condizione patologica comporta una modalità di autossomministrazione reiterata, che usualmente risulta in tolleranza, astinenza e comportamento compulsivo di assunzione della sostanza di abuso. Secondo la “Relazione al Parlamento 2013 sull’uso di sostanze stupefacenti e tossicodipendenze in Italia”, elaborata ogni anno dal Dipartimento Politiche Antidroga, in Italia le persone con problemi di tossicodipendenza in trattamento risultano essere circa 438.500. Di queste, 81.000 sono dipendenti da cocaina, una delle sostanze psicoattive maggiormente utilizzate dagli utenti in trattamento (14,8%), insieme agli oppiacei (74,4%) e alla cannabis (8,7%).
Dal punto di vista neurobiologico, i meccanismi sottostanti alla dipendenza da cocaina riguardano un neurotrasmettirore in particolare, la dopamina, che nel cervello esercita un ruolo importante in diversi abiti (umore, comportamento, cognizione, movimento volontario, ecc.), tra cui appunto la regolazione dei processi motivazionali e di ricompensa(reward circuit). Stimoli che producono gratificazione e piacere (il cibo buono, il sesso, la musica, ma anche le sostanza stupefacenti) provocano il rilascio della dopamina all’interno delle sinapsi. In genere, la dopamina viene recuperata dal neurone trasmittente da una proteina specializzata ma in presenza di cocaina questo meccanismo si inceppa: la cocaina si attacca al trasportatore della dopamina bloccandone il normale processo di ritorno, con un conseguente accumolo di dopamina nella sinapsi. Dal punto di vista neuronale, sono diversi i sistemi cerebrali coinvolti: l’area tegmentale ventrale del mesencefalo (VTA) e il nucleo accubens (facenti parte del circuito di gratificazione); l’amigdala e l’ippocampo (modulatori di impulsi, emozioni e memoria); la corteccia pre-frontale (pianificazione e controllo).
Proprio l’indagine delle aree cerebrali coinvolte e le loro modificazioni nel tempo sono state oggetto di studio della ricerca sopra citata: comunemente si ritiene che le persone che sviluppano una dipendenza non potranno mai eliminare la loro attrazione per la sostanza abusata. Nuovi risultati forniscono ulteriore sostegno a questa ipotesi e suggeriscono chel’astinenza non si traduce in una normalizzazione completa dei circuiti cerebrali.
Krishna Patel e colleghi, dell’Istituto di Living / Hartford Hospital, hanno infatti confrontato le risposte neurali (fMRI) di tre gruppi di persone durante un compito di stimolo-ricompensa. I tre gruppi erano costituiti da 47 controlli sani , 42 consumatori di cocaina e 35 ex- consumatori di cocaina astinenti da una circa 4 anni. Hanno inoltre confrontato i tre gruppi in base ai loro livelli di impulsività e di risposta alla ricompensa tramite test psicologici.
Rispetto al gruppo di controllo, i ricercatori hanno osservato un’attivazione anomala in diverse regioni cerebrali coinvolte nel circuito di ricompensa(reward circuit) sia negli individui cocainomani che negli individui astinenti: quest’ultimi, in particolare, continuano a manifestare differenze in un sottoinsieme di quelle stesse regioni a distanza di anni. Inoltre, in entrambi i gruppi sono stati osservati elevati livelli di impulsività. L’insieme di questi dati suggerisce che l’astinenza prolungata da cocaina non normalizza totalmente il circuito della ricompensa, ma può normalizzarlo in parte. I cambiamenti neuronali persistono nonostante un periodi di astinenza e tutto fa pensare che il recupero dalla dipendenza sia un processo permanente.
Dal punto di vista cognitivo neuropsicologico, possiamo ricondurre tali conclusioni alla bontà della teoria che concepisce l’eziopatologia della tossicodipendenza al confine tra patologia storica e patologia non storica. Dopo il periodo di assunzione iniziale, originato spesso da motivazioni umane associate ad un insieme di stati emotivi (senso di vuoto, ansia, noia, bisogno di “sballarsi”, o di essere sempre all’altezza), le alterazioni emotive-comportamentali della dipendenza trovano miglior spiegazione nei modi alterati della progettualità rispetto ai modi dell’identità, comunque presenti, e tali alterazioni tendono a perdurare nel tempo.
In altri termini, l’abuso della sostanza dovuto inizialmente a mancate o deficitarie riconfigurazioni narrative dell’esperienza – che comportano senso di vuoto, ansia, agitazione, da modulare mediante l’assunzione della sostanza stupefacente – lascia ben presto spazio ad un’alterazione ancora più basica e che riguarda i modi della progettualità (dipendenza), evidenziabile anche a distanza di anni, i cui sub-strati neuronali si associano a coerenti aperture di mondo (limitazioni nella partecipazione sociale, difficoltà a pianificare le azioni, impulsività, ecc. tipiche di compromissioni a livello del circuito frontale-limbico).
Si parla di dipendenze comportamentali quando l’oggetto della dipendenza è costituito da un comportamento o un’attività lecita o accettata. Non sono quindi implicate le classiche “droghe”, ma oggetti o attività come il sesso (compresa la porno-dipendenza), gli acquisti (lo shopping compulsavo), il gioco, il computer, internet o la televisione. Per la maggior parte delle persone queste attività fanno parte del normale svolgimento della vita quotidiana, ma per alcuni individui possono assumere caratteristiche patologiche e provocarecomportamenti compulsivi simili a quelli che si manifestano con la dipendenza da sostanze.
I giochi d’azzardo sono tutti quelli nei quali si gioca per vincere denaro e dove il risultato del gioco dipende, del tutto o in parte, dalla FORTUNA piuttosto che dall’abilità del giocatore. Quelli più diffusi sono: le videolottery e le slot machine (spesso chiamate ancora videopoker o VLT), i gratta e vinci, il lotto e il superenalotto, i giochi al casinò, il “Win for life“, le scommesse sportive o ippiche, il bingo, i giochi on line con vincite in denaro (ad esempio poker online).
Il problema sorge quando si manifesta un persistente bisogno di giocare e aumentano in modo progressivo il tempo e il denaro impegnati nel gioco fino a condizionare in modo significativo gli altri ambiti della propria vita (la famiglia, il lavoro, il tempo libero). Si finisce così per investire al di sopra delle proprie possibilità economiche e a trascurare i quotidiani impegni della vita…
Esse richiedono una presa in carico di tipo multidisciplinare, in cui la neuro-psicologia, intesa come “disciplina ermeneutica“, ricopre un ruolo fondamentale. Secondo quanto promuove Domenico Jervolino in “Neurofenomenologia: le scienze della mente e la sfida dell’esperienza cosciente”, 2006, a cura di Massimiliano Cappuccio, pag. 404), essa permette la “TRADUZIONE tra linguaggi specialistici che cercano di dire diversamente la stessa cosa, o meglio quasi la stessa cosa”. In quest’ottica, la comprensione e il trattamento delle dipendenze comportamentali non può che accompagnarsi sia alle recenti scoperte provenienti dall’ambito neuroscientifico che alla recente evoluzione della psicoterapia cognitiva (Liccione, 2011) che vede sempre più l’uomo un essere incarnato (embodied), situato secondo specifiche tonalità emotive (embedded) e storico, e che pone come elemento cardine del modello di cura proprio la mediazione e il confronto continuo tra discipline che studiano l’uomo secondo il metodo delle scienze naturali (neuroscienze, psicologa dello sviluppo, psicologia sperimentale, ecc.) e quelle che studiano l’essere umano attraverso i suoi propri modi esistenziali, esperienziali e narrativi (scienze filosofiche e umanistiche, come la fenomenologia, l’ermeneutica, la semiotica, ecc.)
Tale doppio binario si rende ormai necessario in quanto le alterazioni emotive-comportamentali conseguenti ad una psicopatologia possano conseguire sia all’essere corpo tra i corpi, sempre soggetto alle leggi della natura (patologie non storiche, che accadono nel silenzio del racconto e che sono dovute a qualche accidente fisico es. trauma cranico, ictus, ecc), sia al particolare modo in cui si dà verbo alla carne (patologie storiche,, in cui la sintomatologia trova origine da fratture identitarie conseguenti a specifici modi di riconfigurare narrativamente i propri modi esperienziali di essere emotivamente situato nel mondo).
Più specificamente, nel caso del gioco d’azzardo patologico possono co-occorrere o meno all’interno di tale continuum sia CAUSE eziopatogeniche (spiegabili attraverso prevalentemente le discipline “bio”, e se si pensa al gioco compulsivo associato al Morbo di Parkinson esse costituiscono la spiegazione principale) che MOTIVI eziopatogenetici, i cui sintomi emotivi-comportamentali trovano senso all’interno di una specifica storia di vita e che sarebbero da ricercare in una alterazione del senso di stabilità personale causata da una o più possibili fratture identitarie (ad. esempio, il caso di una donna che gioca da anni compulsivamente per gestire l’ansia e lo stress legato ad un particolare momento o evento della sua vita).
Seguendo questa linea esplicativa, recenti studi neuroscientifici evidenziano come al gambling sia frequentemente associata una alterazione a livello neurofisiologico: il giocatore d’azzardo patologicopresenta spesso una compromissione del “sistema di gratificazione e ricompensa” e che vede come principale attore un neurotrasmettitore chiamato dopamina. Ma come insegna la tradizione fenomenologia, a meno che non stiamo parlando del gambling associato esclusivamente al Morbo di Parkinson, non è possibile ridurre la sintomatologia espressa dal giocatore d’azzardo patologico alla sola alterazione neurochimica che accade nel cervello (Korper, il corpo inteso come carne).
Sempre facendo riferimento a quanto emerge dalla ricerca sperimentale in ambito cognitivo, si è notato come i giocatore patologici possiedano credenze e convinzioni circa il gioco il più delle volte irrazionali e sbagliate (si veda questa recente meta-analisi). Appaiono incapaci di considerare indipendenti le puntate (vero e proprio tallone d’Achille del giocatore patologico… molto evidente nel casi della roulette o delle nuove VLT) e credono di esercitare un controllo sulle slot machine. Una vera e propria illusione! Ed in effetti il loro pensiero è ricco di elementi che richiamano alla superstizione. Sono inoltre presenti difficoltà legate all’impulsività e al controllo.
Secondo l’approccio ermeneutico-fenomenologico, l’esperienza non è muta e non acquista significato in funzione di un atto riflessivo. I processi mentali sono anche il corpo, la storia, gli orizzonti di un uomo. L’esperienza è già di per sé significativa e “chiede di essere detta”, partendo dalla condizione di uomo incarnato, storico e situato. Sarebbe pertanto riduttivo considerare la psicopatologia soltanto nei termini di un’alterazione dei modi di pensare e di adeguare la mente alla realtà (ad es. credenze errate sulle puntate). A maggior ragione se sono proprio le neuroscienze a validare la natura pre-riflessiva dell’uomo.
L‘esser-ci (l’essere situato nel mondo secondo specifiche tonalità emotive secondo un progetto-gettato)rappresenta la condizione di possibilità di qualsiasi atto riflessivo. Occorre pertanto arretrare ad un livello previo, ontologico. La visione razionale-riflessiva, pur essendo importante in quanto ci permette di cogliere psico-patologicamente degli ideali-tipi, difficilmente ci permette di comprendere sufficientemente “l’effetto che fa” ad una specifica persona (e solo a quella!) giocare alle Slot Machine!
Accedendo così al livello del “Chi”, l’uomo è una carne che si fa storia (identità narrativa) in uno specifico ambiente culturale. Un ente speciale, disposto all’apertura e continuamente interpellato dalle cose. Un esistente che non può fare a meno di trascendere se stesso partendo da una personale condizione di gettatezza e secondo delle possibilità. Nel caso del gioco d’azzardo patologico, tale originaria e pre-riflessiva relazione del Leib (il corpo che io sono) con il mondo e con le sue possibilità appare alterata. Oggetti e attività con le quali condividiamo un mondo ad un certo punto smettono di interpellarci per la loro naturale funzione finendo per acquisire nuovo senso. Se l’uomo è ogni volta l’incontro con il mondo, che tipo di esistenza può essere quella che si rapporta ad essa in una modalità atemporale (priva di progetto), ripetitiva (tipica modalità attraverso la quale si manifestano i vizi), ed in costante rapporto con vissuti emotivi e presenze così estranee da farla dileguare?Non è un caso che molti giocatori patologici manifestano difficoltà nel vivere emozioni quali la noia e il senso di vuoto e che ricorrano al gioco compulsavo proprio per cercare di fronteggiare stati emotivi di “chiusura” di mondo, come la depressione, l’ansia o la solitudine, per sedarsi o per sentirsi/attivarsi (attivando i circuiti neurochimici legati al piacere e alla ricompensa).
Oltre a quanto detto, le dipendenze comportamentali racchiudono in sé alcuni aspetti costitutivi e caratteristici dell’epoca post-moderna. Essa costituisce la cornice di riferimento principale ogniqualvolta abbiamo a che fare con un testo, a maggior ragione se il racconto è un racconto di sofferenza. L’insieme degli elementi socio-culturali in cui siamo immersi fa da sfondo macro-contestuale e spesso ci permettere di comprendere e dare un senso alle azioni e alle passioni dell’altro: in questo caso, direi che è impossibile non calcolare l’enorme impatto che hanno avuto le nuove tecnologie sulle nostre vite, lo stretto legame tra tecnologia e comunicazione (Facebook, Social Networking), nonché la discontinuità e molteplicità del sé. Rispetto all’uomo dell’età moderna, infatti, abbiamo a che fare con identità non più continue ma sempre nell’atto di superarsi (shopping compulsivo, gambling), e costantemente “connesse” a punti esterni su quai sintonizzarsi e mantenersi (internet, slot machine).
In conclusione, il quadro risulta molto complesso ma nello stesso tempo assai fecondo e stimolante. Mi piacerebbe inaugurare con questo post una serie di articoli che approfondiscano un minimo le problematicità legate al gioco d’azzardo, al fine di dare qualche nozione sia in termini cognitivi, neurobiologici che fenomenologici, nonché legate al trattamento… perchè sì, il gioco d’azzardo patologico si può fronteggiare.
Per iniziare, partiamo da qualche dato epidemiologico. Come è possibile appurare da una recente pubblicazione del Dipartimento Politiche Antidroga, considerando che la popolazione Italia è stimata in circa 60 milioni di persone, i giocatori d’azzardo patologici rappresentano una fetta che varia dallo 0,5% al 2,2% della popolazione generale (N. 302.093 – 1.329.211), mentre la stima dei giocatori d’azzardo problematici varia dall’1,3% al 3,8% della popolazione generale (N. 767.318 – 2.295.913). I giocatori d’azzardo che invece hanno un rapporto “sano” con il gioco costituirebbero circa il 54% della popolazione (circa 24.400.000 di persone).
Come ci suggerisce la tabella (Fonte: GAMBLING, 2013, Dipartimento per le politiche antidroga), e coerentemente a quanto proposto sopra, è utile notare come i vari tipi di giocatori vengano disposti su un continuumdimensionale che va dal giocatore “informale e ricreativo” al giocatore d’azzardo “patologico”, passando per il giocatore “problematico”. Esso ci interroga pertanto sulla necessità di integrare maggiormente l’approccio categoriale proposto dal DSM-IV-TR con quello dimensionale, in linea con il recente dibattito scientifico legato al problema della diagnosi in psichiatria.
Occorre non stigmatizzare un comportamento che costituisce da sempre una delle principali attività di svago e di intrattenimento, e che per la maggior parte della gente rappresenta un’attività piacevole e senza conseguenze. Rispetto al passato, tuttavia, è aumentata la pressione pubblicitaria così come si sono moltiplicate le possibilità di giocare. Ciò ha comportato una maggior proprensione a giocare d’azzardo e una conseguente aumento della patologia, a tal punto che il Dipartimento delle Politiche Antidroga stima che si possa entro poco tempo passare ad un’incidenza del gioco patologico pari 7-10% e del gioco problematico del 10-18% .