Videochiamate che fatica! Qualche suggerimento contro l’affaticamento da Zoom

Videochiamate che fatica! Qualche suggerimento contro l’affaticamento da Zoom

Un fenomeno legato all’epidemia COVID-19 è senz’altro l’aumento delle video-conferenze di gruppo. L’obbligo di isolamento e distanziamento sociale imposto dal lockdown ha permesso a molti italiani di familiarizzare con piattaforme quali Zoom, Microsoft Teams, WhatsApp e Duo, ecc. per riunioni virtuali o di lavoro.

Sebbene una riunione virtuale o un “aperiduo” non siano equivalenti agli incontri reali, la loro potenzialità ed efficacia è cosa certa: avere la possibilità di “incontrarsi” offre vantaggi sia dal punto di vista lavorativo che psicologico. Con le settimane che passano, tuttavia, la sola idea di avviare una nuova videoconferenza può generare senso di oppressione e malessere. Tale disagio è maggiore in correlazione al numero di videochiamate che abbiamo in programma nel corso della giornata. Come rilevato da diversi psicologi, tra cui Linda Kaye della Edge Hill University, esperta in cyber-psicologia, un utilizzo eccessivo delle videochiamate può comportare in alcune persone una forma di malessere vero e proprio chiamato “affaticamento da Zoom”, che se protratto nel tempo può incidere sul benessere quotidiano.

Uno dei motivi dell’affaticamento potrebbe essere che la maggior parte delle piattaforme include la visualizzazione della telecamera dell’utente nella schermata della chiamata. Molto probabilmente questo implica uno sforzo mentale maggiore di auto-consapevolezza e attenzione divisa: se negli incontri reali l’incontro avviene quasi senza accorgercene e di certo non pensiamo per tutta la durata a come appariamo agli occhi del nostro interlocutore, nelle videochiamate la presenza della telecamera ci permette di avere un feedback continuo sia della nostra immagine che delle persone con cui stiamo parlando. Il rischio è sovraccaricare il nostro sistema di auto-rappresentazione: ossia correggere involontariamente la presentazione di noi stessi molte volte di più rispetto a quanto faremmo nelle interazioni faccia a faccia nel mondo reale, non senza sforzo!

Un’altra spiegazione potrebbe essere dovuta alle restrizioni tecniche e alla incapacità di cogliere i segnali della comunicazione non verbale. Nelle videochiamate, lo spettro dei segnali sociali è molto più ridotto e questo potrebbe comportarci uno sforzo maggiore nel decifrare e comprendere il comportamento dei nostri interlocutori.

Questi due aspetti potrebbero sovraccaricare il nostro sistema attentivo. Esiste inoltre un’ulteriore spiegazione: banalmente, il fatto di “non perdere tempo” nel viaggiare e nello spostarsi da una riunione ad un’altra potrebbe averci indotto a programmare un numero maggiore di video-conferenze all’interno della nostra vita rispetto a quanto eravamo soliti fare. Un effetto collaterale legato all’avere più tempo a disposizione!

Come ridurre questo senso di affaticamento? Ove possibile, pianificare le pause tra una riunione e l’altra e discriminare tra chiamate di lavoro e amicali. Potremmo trovarci nella condizione di avere più video-chiamate al giorno e decidere quale effettuare: facciamolo senza ansia, dando le giuste priorità e senza obblighi particolare. O sensi di colpa. Se sono veri amici sapranno tollerare una eventuale mia assenza all’aperiduo previsto e saranno ben felici che io partecipi al prossimo incontro!

Un altro suggerimento potrebbe essere quello di utilizzare lo schermo per visualizzare gli altri invece che la mia immagine. La comunicazione, per il principio illustrato prima legato al sistema di auto-rappresentazione, sarà più facile.

Consideriamo inoltre quante persone devono essere incluse in una video chat. Naturalmente, un numero minore di persone renderà la videochiamata più facile e meno impegnativa rispetto alle riunioni più grandi.

ARTICOLO ISPIRATO DA FONTE: https://www.psychreg.org/zoom-fatigue/

Un piccola guida proposta da PsychologyTools per fronteggiare ansia e preoccupazione durante l’emergenza Coronavirus

Un piccola guida proposta da PsychologyTools per fronteggiare ansia e preoccupazione durante l’emergenza Coronavirus

A mio parere uno degli strumenti più carini sviluppati in questi giorni, per tutti, su come gestire ansia e preoccupazione durante l’emergenza Coronavirus. Disponibile sul PsychologyTools, liberamente scaricabile e tradotta in varie lingue, tra cui l’italiano (grazie alla traduzione di: Ilaria Fonzo e Marion Santorelli). Un piccolo concentrato di terapia cognitivo-comportamentale che può essere utile.

Free Guide To Living With Worry And Anxiety Amidst Global Uncertainty

 

COVID-19. Il contributo degli psicologi difronte all’emergenza sanitaria

COVID-19. Il contributo degli psicologi difronte all’emergenza sanitaria

L’emergenza COVID-19 costituisce una sfida sanitaria enorme, caratterizzata dal fatto che investe particolarmente la dimensione psicologica. Sono rimasto molto colpito dalla risposta della mia comunità professionale, e non smetterò mai di meravigliarmi sul contributo che può dare la psicologia. Questo articolo non ha la pretesa di essere esaustivo, vuole semplicemente essere uno omaggio alla mia professione, convinto che il lavoro mio e di tanti miei colleghi sia utile ad affrontare questi tempi di crisi caratterizzati da tanta sofferenza, rinunce e aspettative.

Partiamo da una delle esperienze più vissute in questi giorni: la paura. Come gestirla? Da quando è entrato nelle nostre vite il Coronavirus, la paura è emersa in tutta la sua forma. È importante ribadire che la paura è un’emozione del tutto normale e utile. Ci permette di prevenire i pericoli e di evitarli.
La paura funziona bene se è proporzionata ai pericoli. Diventa disfunzionale quando è eccessiva rispetto ai rischi oggettivi. In questi casi la paura si trasforma in panico e finisce per danneggiarci. La diffusione del Coronavirus ha proprio queste caratteristiche. Appare pertanto fondamentale imparare a gestirla. L’Ordine degli psicologi proprio in questi giorni ha pubblicato un insieme di iniziative, tra cui un Vademecum “Antipanico” rivolto alla cittadinanza. Due indicazioni trovo particolarmente utili: 1) Attenersi ai fatti, cioè al pericolo oggettivo; 2) Troppe emozioni impediscono il ragionamento corretto e frenano la capacità di vedere le cose in una prospettiva giusta e più ampia. Andrebbe quindi limitata a ricerca spasmodica e ossessiva delle informazioni, perché possono produrre l’effetto contrario (generare ansia). Due volte al giorno attraverso la consultazione di fonti ufficiali è più che sufficiente.

Un altro contributo che possono dare gli psicologi è studiare la percezione del rischio nelle persone. In questi giorni si parla di decreti e norme, e ci colpisce sentire alla radio di quanto sia difficile per alcune persone seguire l’importante indicazione di “rimanere a casa”. Ebbene, anche in questo caso la psicologia può esserci d’aiuto. I “Bias” cognitivi sono – semplificando molto – errori mentali e percezioni errate o deformate su pregiudizi e ideologie. Hanno un impatto sulla nostra vita perché possono portarci ad effettuare, involontariamente, degli errori. Studiando quanto è avvenuto durante la pandemia influenzale del 2019 (H1N1), alcuni scienziati cognitivi hanno osservato in uno paper del 2015 un bias cognitivo interessante: le persone tendono a pensare di avere meno probabilità di essere contagiate rispetto al resto della comunità. Sottostimano quindi il rischio. Conoscere come la percezione del rischio e il comportamento delle persone cambia nel corso di una pandemia può aiutare il sistema ad adottare misure preventive e di contrasto adeguate, in tempi efficaci.

Un altro contributo che gli psicologi possono dare è chiaramente quello rivolto a medici, infermieri e personale socio-sanitario. Il loro lavoro è immenso e di enorme importanza. È fondamentale ribadire a livello istituzionale la necessità di fornire supporto psicologico a chi lavora in prima linea. Nell’immediato, gli psicologi possono contribuire a supportare emotivamente i professionisti e a insegnar loro strategie di gestione delle emozioni e dello stress. A lungo termine, sarà fondamentale seguire psicologicamente le varie figure al fine di contrastare la genesi e lo sviluppo di vari disturbi tra cui: disturbi dell’umore, disturbi d’ansia e disturbo post-traumatici da stress. Tutte condizioni che tendono a manifestarsi in chi ha vissuto esperienze di sovraccarico emozionale caratterizzate da emozioni quali ansia, rabbia, senso di impotenza, colpa, perdita, ecc.

Infine, non va dimenticato il contributo che gli psicologi possono dare in questo periodo alle famiglie. Gli psicologi che lavorano in ambito educativo possono dare utili indicazioni su come comunicare adeguatamente i cambiamenti associati all’emergenza Coronavirus ai bambini. Attraverso questo link condivido il contributo di quello che è stato tanti anni fa un mio professore universitario, prof. Fabio Celi. Non dobbiamo dimenticare che il mondo dei bambini si intreccia inevitabilmente con il nostro.
 Ai bambini va garantita una comunicazione adeguata all’età, in modo tale che possano comprendere con i propri mezzi la complessità della situazione prevenendo così lo sviluppo di ansie eccessive.

In tempi di quarantena obbligatoria, particolare attenzione merita la vita di coppia: gli psicologi sanno bene che difronte ad emergenze simili possono aumentare conflitti e separazioni. Gli psicologi possono garantire interventi di mediazione e negoziazione del conflitto. Passata la fase innamoramento, infatti, ogni coppia trova il proprio equilibrio: lavoro e hobby aiutano a ritrovare ossigeno e a mantenere quella giusta distanza tra bisogni individuali e di coppia. Una improvvisa convivenza forzata, 24h su 24h, può destrutturare questo equilibrio e la routine. Se non affrontato in tempo, con maturità e attraverso la giusta dose di comunicazione, la situazione può precipitare. L’emergenza di questo periodo può riflettersi anche in ambito lavorativo e questo può rendere le persone particolarmente irritabili. In ognuno di questi casi, gli psicologi possono dare indicazioni importanti: fondamentale appare mantenere, anche all’interno di una convivenza forzata, spazi di silenzio e di autonomia concordati con l’altro.

Dieta e disturbi alimentari negli adolescenti

Dieta e disturbi alimentari negli adolescenti

Come psicologo, ho accolto con grande favore le nuove linee guida dell’American Academy of Pediatrics in tema disturbi del comportamento alimentare negli adolescenti. Si propone un approccio centrato sulla prevenzione, psico-educativo e univoco, valido cioè per tutti gli adolescenti, non solo per quelli con manifeste patologie del comportamento alimentare. Si approfondisce inoltre il rapporto tra dieta e disturbi alimentari in età adolescenziale.
COSA SUGGERISCONO LE LINEE GUIDA?
In tempi in cui si assiste sempre di più al proliferarsi delle diete “fai da te” e alla diffusione e condivisione di irrealistici modelli di bellezza, le nuove raccomandazioni suggeriscono ai pediatri e ai genitori come muoversi per aiutare i teenager ad evitare sia l’obesità sia il pericolo di sviluppare un disturbo del comportamento alimentare.
COSA NON FARE
– Evitate le “Wheight talk“, ossia le discussioni centrate sul peso. Parlate di altro, interessatevi alle loro passioni e ai loro progetti, ma non focalizzatevi sul peso, né del proprio, né del loro.
– Evitate di deridere e prendere in giro un adolescente per il suo peso. Sarà banale ma è fondamentale. Ironizzare sul peso di un adolescente (in particolare, di quello del proprio figlio) significa probabilmente contribuire alla genesi di problemi psicologici che interessano l’autostima, il senso di inadeguatezza e l’immagine corporea.

(altro…)

Stranger Post-it

Stranger Post-it

“Qual è il discrimine per far nascere un sospetto?!”

Questo è l’interessante quesito con cui si chiude un bel post apparso su Sonetto Bit qualche giorno fa. Lungi da me valutare a fondo la bontà della campagna pubblicitaria, da psicologo sono molto più interessato all’interrogativo “epistemologico” che l’autrice pone.
La reazione emotiva citata è il panico. Quanto racconta l’autrice, ossia la risposta emotiva di un’intera comunità in conseguenza della comparsa di post-it appiccicati qua e là, evoca alla mia memoria alcuni studi di psicologia sociale aventi come tema l’influenza delle emozioni sulla percezione di vulnerabilità.
Assumendo una prospettiva diversa dalla classica impostazione cognitiva, credo che il panico sia frutto della sensazione di disorientamento dovuta ad un conseguente riduzione di “mondo”. Per mondo, intendiamo quello che intendeva Heidegger ossia l’insieme delle opportunità e dei significati all’interno del quale già siamo e che si danno alla nostra coscienza.
In quest’ottica, se io vivo nella tonalità emotiva della “paura”, incontro il mondo in termini paurosi e minacciosi. Ci sono splendide pagine in Essere e tempo che descrivono il carattere esistenziale dell’esser-ci emotivamente situato. Se vivo con la sensazione che il nemico arrivi da qualsiasi parte e in qualsiasi momento, vivrò in perenne stato di allerta e all’interno di una angoscia profonda.
Il mondo si restringe  e io perdo quindi la possibilità di accedere al simbolico e di astrarre le informazioni nella “forma” originaria. Assistiamo inoltre a reazioni scomposte di fuga dal “centro” (la ragione, la verità) proprio perché, come giustamente fa notare l’autrice parlando della società di oggi (la società delle informazioni), il centro non esiste più: appare tutto potenzialmente raggiungibile ma paradossalmente sfuggente (Internet), tutto a portata di mano ma nello stesso tempo inafferrabile, schiumoso e globulare direbbe Peter Sloterdijk. Ognuno vive nelle proprie monadi informative, e non si è più disposti ad interessarsi all’altro. Partendo da questa considerazione, immaginiamoci in uno spazio: dov’è ora la linea immaginaria che separa il buono dal cattivo, la curiosità dal sospetto, il vero dal falso? Forse qualche decina di anni fa sarebbe stato più facile rispondere…Oggi sembra tutto più difficile (post-modernismo), e la difficoltà consiste proprio nel sapere discernere. Tradotto: dove collocarsi? Dove guardare? Da che parte stare? E soprattutto: può ancora sussistere la possibilità di discriminare e scorgere il Vero se davanti a me pre-sentifico costantemente una presenza (nemica) che copre l`orizzonte stesso (più ampio) della verità?


Il sentirsi scoperti, non più ” a casa”, con il dubbio che ci possono “invadere”, se diventa costitutivo del nostro esserci quotidiano aumenta la sensazione di allarme, la percezione di fragilità e di pericolo. Aumenta la paranoia. A quel punto vedrò solo il nemico. Del resto, se vivo nella paura il mondo non si darà costantemente alla mia coscienza in termini minacciosi e paurosi?

Paura che sarà attenuata solo in parte dalle effimere risposte fornite dalle “bufale un tanto al kilo”, che proprio per loro natura vengono percepite inizialmente come riduttori di complessitàquindi di lontananza: chi “si ritrova in esse” si sente complice, protetto, e vicino come non mai ad un inaspettato e rassicurante “focolare“. Ma la verità non giunge mai, si rimane immersi in un vuoto informativo che genera a lungo termine angoscia.

Ecco allora il motivo per cui secondo me una brillante trovata pubblicitaria non viene più colta nella sua immediatezza con stupore, ma con fastidio, paura e disorientamento. Non c’è più prospettiva e nulla può emergere se non una forma arcaica di paura e sospetto pre-umana. Mi viene in mente una canzone di Gaber, da titolo “La Paura”:

“(…) Siamo a dieci metri. Le mani stringono al petto… un grosso mazzo di fiori, un mazzo di fiori? Chi crede di fregare? Una pistola, un coltello, nascosto in mezzo ai tulipani, come sono furbe le forze del male. 
Eccolo, è a cinque metri, è finita, quattro tre due un… 
Ahhhh, niente, era soltanto, un uomo.”

Con la differenza che un tempo, sia il personaggio di Gaber che quello di Don Abbondio nell`episodio dei Bravi de “I Promessi Sposi” (pavido per eccellenza), trovavano in qualche modo il modo di andare avanti, pur nella loro pavidità e costrizione. Accettavano la sfida a proseguire sulla strada dell’ignoto, mettendosi poi nelle condizioni di “cambiare”, di venire “illuminati” o di essere redenti (sugli esiti, direi che se l’è cavicchiata meglio il personaggio immaginato da Gaber!..)

Oggi? Nel venir meno di prospettiva non c’è più sentiero, si dileguano quindi anche le rimanenti possibilità di cambiamento dovute all’andare “incontro” (disvelamento): “si rimane fermi” a prescindere, in un corto circuito mediatico dove non c’è più spazio per l’altro ma si è solo hooligans della propria squadra. Così le paure si condividono su Facebook in attesa di un mi piace che le confermi e le rifletta, come in un labirinto di specchi.

“Translation Problem”, neuroscienze e fenomenologia

“Translation Problem”, neuroscienze e fenomenologia

In futuro saremo obbligati a “tradurre” nel quotidiano ogni scoperta proveniente dal mondo neuroscientifico? Saremo costretti a modificare il modo in cui concepiamo e parliamo delle emozioni e dei nostri sentimenti in seguito alla pubblicazione di autorevoli studi che ci informano su quali siano le aree corticali attive mentre guardiamo la foto della nostra fidanzata/o, o mentre la/lo stiamo pensando? Finiremo per prendere le decisioni migliori solo perché abbiamo capito come funziona in termini neurobiochimici e cognitivi il processo di decision making?

Questo si chiede con un certo stupore Neuroskeptic riprendendo il neanche troppo provocatorio paper pubblicato recentemente da alcuni ricercatori olandesi, avente appunto come tema il “Translation Problem“. Per Translation Problem si intende proprio questo: perché le scoperte neuroscientifiche non hanno avuto ancora un impatto sul linguaggio, sul modo in cui pensiamo e sui modi in cui concepiamo fenomeni psichici quotidiani quali leggere, amare, sentire, decidere, etc? Come mai questo ritardo…!?

Per chi non lo conoscesse, Neuroskeptic pubblica sulla piattaforma di Discover Magazine e critica frequentemente tutto ciò che emerge di falsoesageratoanti-scientificodubbioso o pretenzioso dal campo delle neuroscienze, della psichiatria e della psicologia. Lungi dall’essere “contro”, è invece garante e custode della “buona” psicologia e della validità di seri studi neuroscientifici. Può pertanto considerarsi un “debunker” applicato a tali discipline e riferendosi all’articolo sopra citato afferma fin da subito:

“It’s a thought-provoking piece, but it left me feeling that the authors are expecting too much from neuroscience. I don’t think insights from neuroscience are likely to change our lives any time soon.”

Cui segue, subito dopo, la seguente, illuminata, connsiderazione:

“I don’t see any reason why neuroscience would change our everyday lives. To put it simply, we already know what our brains do – we are familiar with the behaviours and experiences that make up human life (i.e. with psychology, broadly defined). Neuroscience is the search to understand how the brain does what it does, but this knowledge won’t change the facts of psychology.

Una considerazione netta che per chi ha un minimo di infarinatura filosofica può risuonare per certi versi fenomenologica! Cosa intendo con queste parole? Ebbene, anche la fenomenologia, corrente filosofica del primo ‘900, ha per certi versi un passato da debunker, al pari di Neuroskeptic! E nonostante sia passato ormai un secolo dalla sua nascita, è stata e rimane uno dei principali interlocutori critici rispetto al ruolo di un certo tipo di psichiatria e delle neuroscienze cognitive attuali, soprattutto quando si tratta di dare un “senso” e un “significato” alle loro recenti scoperte.

Molto semplificando, uno dei più grandi insegnamenti della fenomenologia consiste nel considerare l’esperienza già di per sé significativa, al di là dell’atto psichico/riflessivo. L’esperienza non è muta, ma è già dotata di significato per il semplice fatto che l’uomo non è un ente separato dal oggetto, ma intrattiene continuamente con esso un rapporto intenzionale in cui si rende esplicito fin da subito un orizzonte di senso dato a sua volta da una apertura originaria. Uno “spazio” autentico e immediato che Heidegger chiama, ad esempio, “essere-nel-mondo”. E’ principalmente per questo motivo che schiere di fenomenologi sono soliti gridare entusiasti: “Alle cose stesse”!

Tutto è sgombero dai pregiudizi e dalle assunzioni, anche quelle scientifiche: pena il non poter effettuare l”epoché” (la riduzione fenomenologica). Rivolta alla scienza, la critica maggiore non è tanto sulla validità del metodo scientifico, quanto ad una certa “pretesa” che il così detto scientismo (mi verrebbe da dire, l’eccesso di zelo nel considerare il metodo scientifico come l’unico modo per accedere alla verità, al reale..) ambisce ad avere nel momento in cui ritiene di essere “l’unica” realtà possibile e accettabile! Pur riconoscendo il contributo della scienza e dello sviluppo tecnologico all’umanità, la fenomenologia ritiene che non sia poi così necessario sapere di che cosa è composta chimicamente l’acqua per dire come ci si senta ad essere bagnati. Basta l’esperienza dello stare sotto la pioggia, l'”effetto che fa” l’acqua sulla nostra pelle durante, ad esempio, un temporale. L’insieme di questi elementi ci invita a considerare che per la fenomenologia basta, in sostanza, l’immediatezza del mondo della vita!

Ebbene, come se facesse riferimento agli insegnamenti della critica fenomenologica, Neuroskeptic formula nel corso del suo post un interessante esempio avente come oggetto la retina:

“To give an example, we now know a great deal about the structure and function of the retina (which is part of the brain.) Retinal biology is useful in diagnosing and treating retinal diseases. But it hasn’t changed how we use our retinas in everyday life, or how we think about vision. We already knew how to use our retinas; science just explained why the retina works the way it works.”

 

In sostanza, il fatto di sapere qual è la struttura biologica della retina (cervello) e il suo funzionamento è senz’altro importante per la diagnosi e per il trattamento di patologie, ma nulla aggiunge al modo in cui ce ne serviamo” nel quotidiano, al modo in cui vediamo, o a quello che pensiamo e diciamo su di essa! Noi già sappiamo come usare la retina! È chiaro quindi che non potremo mai ridurre l’esperienza umana (in questo caso, ad esempio, il vedere e il percepire persone ed oggetti, ma si potrebbero fare tanti altri esempi) agli esiti di un esperimento scientifico per il semplice fatto che non potremo mai scomporre un fenomeno che per sua natura è dannatamente più ampio e complesso di quello che ci ostiniamo a misurare. Per tal motivo, parlare di traduzione è limitato se non limitante.

In conclusione, la vera ed unica traduzione consiste non tanto nel cercare di “inglobare” il linguaggio delle neuroscienze nella nostra vita quotidiana, quanto nel mantenere vivo un dialogo tra due discipline che, a vario titolo, cercano di dire diversamente la stessa cosa, o quasi la stessa cosa: le neuroscienze (intesa come scienza in terza persone, che ha come oggetto di studio la Cosa) e la psicologia (intesa come scienza in prima persona, che ha come oggetto di studio il Chi). E’ questa la sfida più grande che spetta agli studiosi del comportamento umano (sia nella variante normale che in quella patologica): tradurre due linguaggi specialistici senza tuttavia ridurre l’uno all’altro.

Ecco allora l’esigenza di una neuropsicologia “ermeneutica”, capace di mediare continuamente tra le neuroscienze che si occupano del “corpo” e la psicologia che si occupa della “carne (riprendendo la classica distinzione di Husserl tra Korper e Leib). Una distinzione “fine” propria della fenomenologia, da preservare quanto quella di Dilthey tra Spiegazione e Comprensione, e che avrebbe senz’altro reso maggiormente incisiva la pur rispettabile critica di Neuroskeptic (il quale a mio modesto parere si limita, invece, a dire: “non esiste il problema”)! Per questo motivo, l’amore romantico non può e non potrà mai essere ridotto alla sola biochimica di un severo disturbo ossessivo-compulsivo. Pena la vittoria del premio Ig-nobel, come già accaduto in passato, e l’avverarsi di una “scienza unica” come si augurava il positivismo! Così come difficilmente prenderemo la decisione migliore solo perché sappiamo come funzionano i processi neuro-cognitivi sottostanti. L’amore, i sentimenti, le decisioni, ecc dipendono certamente da aree cerebrali e processi, ma il fatto di sapere come funziona “l’amore” nulla aggiunge all’esperienza stessa dell’amore. Sono importanti anche motivi “storici” dettati da una storia di vita, il contesto e l’orizzonte di senso in cui, quel giorno, ho incontrato quella ragazza o ho preso quella decisione. Una storia per definizione unica e irripetibile, e per questo difficilmente afferrabile.
Onde evitare di ricadere negli stessi errori, se lette in modo critico rimangono un monito le seguenti parole di Husserl:
«Nella miseria della nostra vita – si sente dire – questa scienza non ha niente da dirci. Essa esclude di principio proprio quei problemi che sono i più scottanti per l’uomo, il quale, nei nostri tempi tormentati, si sente in balia del destino».
Bibliografia

Pin It on Pinterest