Un fenomeno legato all’epidemia COVID-19 è senz’altro l’aumento delle video-conferenze di gruppo. L’obbligo di isolamento e distanziamento sociale imposto dal lockdown ha permesso a molti italiani di familiarizzare con piattaforme quali Zoom, Microsoft Teams, WhatsApp e Duo, ecc. per riunioni virtuali o di lavoro.
Sebbene una riunione virtuale o un “aperiduo” non siano equivalenti agli incontri reali, la loro potenzialità ed efficacia è cosa certa: avere la possibilità di “incontrarsi” offre vantaggi sia dal punto di vista lavorativo che psicologico. Con le settimane che passano, tuttavia, la sola idea di avviare una nuova videoconferenza può generare senso di oppressione e malessere. Tale disagio è maggiore in correlazione al numero di videochiamate che abbiamo in programma nel corso della giornata. Come rilevato da diversi psicologi, tra cui Linda Kaye della Edge Hill University, esperta in cyber-psicologia, un utilizzo eccessivo delle videochiamate può comportare in alcune persone una forma di malessere vero e proprio chiamato “affaticamento da Zoom”, che se protratto nel tempo può incidere sul benessere quotidiano.
Uno dei motivi dell’affaticamento potrebbe essere che la maggior parte delle piattaforme include la visualizzazione della telecamera dell’utente nella schermata della chiamata. Molto probabilmente questo implica uno sforzo mentale maggiore di auto-consapevolezza e attenzione divisa: se negli incontri reali l’incontro avviene quasi senza accorgercene e di certo non pensiamo per tutta la durata a come appariamo agli occhi del nostro interlocutore, nelle videochiamate la presenza della telecamera ci permette di avere un feedback continuo sia della nostra immagine che delle persone con cui stiamo parlando. Il rischio è sovraccaricare il nostro sistema di auto-rappresentazione: ossia correggere involontariamente la presentazione di noi stessi molte volte di più rispetto a quanto faremmo nelle interazioni faccia a faccia nel mondo reale, non senza sforzo!
Un’altra spiegazione potrebbe essere dovuta alle restrizioni tecniche e alla incapacità di cogliere i segnali della comunicazione non verbale. Nelle videochiamate, lo spettro dei segnali sociali è molto più ridotto e questo potrebbe comportarci uno sforzo maggiore nel decifrare e comprendere il comportamento dei nostri interlocutori.
Questi due aspetti potrebbero sovraccaricare il nostro sistema attentivo. Esiste inoltre un’ulteriore spiegazione: banalmente, il fatto di “non perdere tempo” nel viaggiare e nello spostarsi da una riunione ad un’altra potrebbe averci indotto a programmare un numero maggiore di video-conferenze all’interno della nostra vita rispetto a quanto eravamo soliti fare. Un effetto collaterale legato all’avere più tempo a disposizione!
Come ridurre questo senso di affaticamento? Ove possibile, pianificare le pause tra una riunione e l’altra e discriminare tra chiamate di lavoro e amicali. Potremmo trovarci nella condizione di avere più video-chiamate al giorno e decidere quale effettuare: facciamolo senza ansia, dando le giuste priorità e senza obblighi particolare. O sensi di colpa. Se sono veri amici sapranno tollerare una eventuale mia assenza all’aperiduo previsto e saranno ben felici che io partecipi al prossimo incontro!
Un altro suggerimento potrebbe essere quello di utilizzare lo schermo per visualizzare gli altri invece che la mia immagine. La comunicazione, per il principio illustrato prima legato al sistema di auto-rappresentazione, sarà più facile.
Consideriamo inoltre quante persone devono essere incluse in una video chat. Naturalmente, un numero minore di persone renderà la videochiamata più facile e meno impegnativa rispetto alle riunioni più grandi.
A mio parere uno degli strumenti più carini sviluppati in questi giorni, per tutti, su come gestire ansia e preoccupazione durante l’emergenza Coronavirus. Disponibile sul PsychologyTools, liberamente scaricabile e tradotta in varie lingue, tra cui l’italiano (grazie alla traduzione di: Ilaria Fonzo e Marion Santorelli). Un piccolo concentrato di terapia cognitivo-comportamentale che può essere utile.
L’emergenza COVID-19 costituisce una sfida sanitaria enorme, caratterizzata dal fatto che investe particolarmente la dimensione psicologica. Sono rimasto molto colpito dalla risposta della mia comunità professionale, e non smetterò mai di meravigliarmi sul contributo che può dare la psicologia. Questo articolo non ha la pretesa di essere esaustivo, vuole semplicemente essere uno omaggio alla mia professione, convinto che il lavoro mio e di tanti miei colleghi sia utile ad affrontare questi tempi di crisi caratterizzati da tanta sofferenza, rinunce e aspettative.
Partiamo da una delle esperienze più vissute in questi giorni: la paura. Come gestirla? Da quando è entrato nelle nostre vite il Coronavirus, la paura è emersa in tutta la sua forma. È importante ribadire che la paura è un’emozione del tutto normale e utile. Ci permette di prevenire i pericoli e di evitarli. La paura funziona bene se è proporzionata ai pericoli. Diventa disfunzionale quando è eccessiva rispetto ai rischi oggettivi. In questi casi la paura si trasforma in panico e finisce per danneggiarci. La diffusione del Coronavirus ha proprio queste caratteristiche. Appare pertanto fondamentale imparare a gestirla. L’Ordine degli psicologi proprio in questi giorni ha pubblicato un insieme di iniziative, tra cui un Vademecum “Antipanico” rivolto alla cittadinanza. Due indicazioni trovo particolarmente utili: 1) Attenersi ai fatti, cioè al pericolo oggettivo; 2) Troppe emozioni impediscono il ragionamento corretto e frenano la capacità di vedere le cose in una prospettiva giusta e più ampia. Andrebbe quindi limitata a ricerca spasmodica e ossessiva delle informazioni, perché possono produrre l’effetto contrario (generare ansia). Due volte al giorno attraverso la consultazione di fonti ufficiali è più che sufficiente.
Un altro contributo che possono dare gli psicologi è studiare la percezione del rischio nelle persone. In questi giorni si parla di decreti e norme, e ci colpisce sentire alla radio di quanto sia difficile per alcune persone seguire l’importante indicazione di “rimanere a casa”. Ebbene, anche in questo caso la psicologia può esserci d’aiuto. I “Bias” cognitivi sono – semplificando molto – errori mentali e percezioni errate o deformate su pregiudizi e ideologie. Hanno un impatto sulla nostra vita perché possono portarci ad effettuare, involontariamente, degli errori. Studiando quanto è avvenuto durante la pandemia influenzale del 2019 (H1N1), alcuni scienziati cognitivi hanno osservato in uno paper del 2015 un bias cognitivo interessante: le persone tendono a pensare di avere meno probabilità di essere contagiate rispetto al resto della comunità. Sottostimano quindi il rischio. Conoscere come la percezione del rischio e il comportamento delle persone cambia nel corso di una pandemia può aiutare il sistema ad adottare misure preventive e di contrasto adeguate, in tempi efficaci.
Un altro contributo che gli psicologi possono dare è chiaramente quello rivolto a medici, infermieri e personale socio-sanitario. Il loro lavoro è immenso e di enorme importanza. È fondamentale ribadire a livello istituzionale la necessità di fornire supporto psicologico a chi lavora in prima linea. Nell’immediato, gli psicologi possono contribuire a supportare emotivamente i professionisti e a insegnar loro strategie di gestione delle emozioni e dello stress. A lungo termine, sarà fondamentale seguire psicologicamente le varie figure al fine di contrastare la genesi e lo sviluppo di vari disturbi tra cui: disturbi dell’umore, disturbi d’ansia e disturbo post-traumaticida stress. Tutte condizioni che tendono a manifestarsi in chi ha vissuto esperienze di sovraccarico emozionale caratterizzate da emozioni quali ansia, rabbia, senso di impotenza, colpa, perdita, ecc.
Infine, non va dimenticato il contributo che gli psicologi possono dare in questo periodo alle famiglie. Gli psicologi che lavorano in ambito educativo possono dare utili indicazioni su come comunicare adeguatamente i cambiamenti associati all’emergenza Coronavirus ai bambini. Attraverso questo link condivido il contributo di quello che è stato tanti anni fa un mio professore universitario, prof. Fabio Celi. Non dobbiamo dimenticare che il mondo dei bambini si intreccia inevitabilmente con il nostro. Ai bambini va garantita una comunicazione adeguata all’età, in modo tale che possano comprendere con i propri mezzi la complessità della situazione prevenendo così lo sviluppo di ansie eccessive.
In tempi di quarantena obbligatoria, particolare attenzione merita la vita di coppia: gli psicologi sanno bene che difronte ad emergenze simili possono aumentare conflitti e separazioni. Gli psicologi possono garantire interventi di mediazione e negoziazione del conflitto. Passata la fase innamoramento, infatti, ogni coppia trova il proprio equilibrio: lavoro e hobby aiutano a ritrovare ossigeno e a mantenere quella giusta distanza tra bisogni individuali e di coppia. Una improvvisa convivenza forzata, 24h su 24h, può destrutturare questo equilibrio e la routine. Se non affrontato in tempo, con maturità e attraverso la giusta dose di comunicazione, la situazione può precipitare. L’emergenza di questo periodo può riflettersi anche in ambito lavorativo e questo può rendere le persone particolarmente irritabili. In ognuno di questi casi, gli psicologi possono dare indicazioni importanti: fondamentale appare mantenere, anche all’interno di una convivenza forzata, spazi di silenzio e di autonomia concordati con l’altro.
Come psicologo, ho accolto con grande favore le nuovelinee guidadell’American Academy of Pediatrics in tema disturbi del comportamento alimentare negli adolescenti. Si propone un approccio centrato sullaprevenzione, psico-educativo e univoco, valido cioè per tutti gli adolescenti, non solo per quelli con manifeste patologie del comportamento alimentare. Si approfondisce inoltre il rapporto tra dieta e disturbi alimentari in età adolescenziale.
COSA SUGGERISCONO LE LINEE GUIDA?
In tempi in cui si assiste sempre di più al proliferarsi delle diete “fai da te” e alla diffusione e condivisione di irrealistici modelli di bellezza, le nuove raccomandazioni suggeriscono ai pediatri e ai genitori come muoversi per aiutare iteenagerad evitare sia l’obesità sia il pericolo di sviluppare un disturbo del comportamento alimentare.
COSA NON FARE
– Evitate le “Wheight talk“, ossia le discussioni centrate sul peso. Parlate di altro, interessatevi alle loro passioni e ai loro progetti, ma non focalizzatevi sul peso, né del proprio, né del loro.
– Evitate di deridere e prendere in giro un adolescente per il suo peso. Sarà banale ma è fondamentale. Ironizzare sul peso di un adolescente (in particolare, di quello del proprio figlio) significa probabilmente contribuire alla genesi di problemi psicologici che interessano l’autostima, il senso di inadeguatezza e l’immagine corporea.
“Qual è il discrimine per far nascere un sospetto?!” Questo è l’interessante quesito con cui si chiude un bel post apparso su Sonetto Bit qualche giorno fa. Lungi da me valutare a fondo la bontà della campagna pubblicitaria, da psicologo sono molto più interessato all’interrogativo “epistemologico” che l’autrice pone.
La reazione emotiva citata è il panico. Quanto racconta l’autrice, ossia la risposta emotiva di un’intera comunità in conseguenza della comparsa di post-it appiccicati qua e là, evoca alla mia memoria alcuni studi di psicologia sociale aventi come tema l’influenza delle emozioni sulla percezione di vulnerabilità.
Assumendo una prospettiva diversa dalla classica impostazione cognitiva, credo che il panico sia frutto della sensazione di disorientamento dovuta ad un conseguente riduzione di “mondo”. Per mondo, intendiamo quello che intendeva Heidegger ossia l’insieme delle opportunità e dei significati all’interno del quale già siamo e che si danno alla nostra coscienza.
In quest’ottica, se io vivo nella tonalità emotiva della “paura”, incontro il mondo in termini paurosi e minacciosi. Ci sono splendide pagine in Essere e tempo che descrivono il carattere esistenziale dell’esser-ci emotivamente situato. Se vivo con la sensazione che il nemico arrivi da qualsiasi parte e in qualsiasi momento, vivrò in perenne stato di allerta e all’interno di una angoscia profonda.
Il mondo si restringe e io perdo quindi la possibilità di accedere al simbolico e di astrarre le informazioni nella “forma” originaria. Assistiamo inoltre a reazioni scomposte di fuga dal “centro” (la ragione, la verità) proprio perché, come giustamente fa notare l’autrice parlando della società di oggi (la società delle informazioni), il centro non esiste più: appare tutto potenzialmente raggiungibile ma paradossalmente sfuggente (Internet), tutto a portata di mano ma nello stesso tempo inafferrabile, schiumoso e globulare direbbe Peter Sloterdijk. Ognuno vive nelle proprie monadi informative, e non si è più disposti ad interessarsi all’altro. Partendo da questa considerazione, immaginiamoci in uno spazio: dov’è ora la linea immaginaria che separa il buono dal cattivo, la curiosità dal sospetto, il vero dal falso? Forse qualche decina di anni fa sarebbe stato più facile rispondere…Oggi sembra tutto più difficile (post-modernismo), e la difficoltà consiste proprio nel sapere discernere. Tradotto: dove collocarsi? Dove guardare? Da che parte stare? E soprattutto: può ancora sussistere la possibilità di discriminare e scorgere il Vero se davanti a me pre-sentifico costantemente una presenza (nemica) che copre l`orizzonte stesso (più ampio) della verità?
Il sentirsi scoperti, non più ” a casa”, con il dubbio che ci possono “invadere”, se diventa costitutivo del nostro esserci quotidiano aumenta la sensazione di allarme, la percezione di fragilità e di pericolo. Aumenta la paranoia. A quel punto vedrò solo il nemico. Del resto, se vivo nella paura il mondo non si darà costantemente alla mia coscienza in termini minacciosi e paurosi?
Paura che sarà attenuata solo in parte dalle effimere risposte fornite dalle “bufale un tanto al kilo”, che proprio per loro natura vengono percepite inizialmente come riduttori di complessità, quindi di lontananza: chi “si ritrova in esse” si sente complice, protetto, e vicino come non mai ad un inaspettato e rassicurante “focolare“. Ma la verità non giunge mai, si rimane immersi in un vuoto informativo che genera a lungo termine angoscia.
Ecco allora il motivo per cui secondo me una brillante trovata pubblicitaria non viene più colta nella sua immediatezza con stupore, ma con fastidio, paura e disorientamento. Non c’è più prospettiva e nulla può emergere se non una forma arcaica di paura e sospetto pre-umana. Mi viene in mente una canzone di Gaber, da titolo “La Paura”:
“(…) Siamo a dieci metri. Le mani stringono al petto… un grosso mazzo di fiori, un mazzo di fiori? Chi crede di fregare? Una pistola, un coltello, nascosto in mezzo ai tulipani, come sono furbe le forze del male.
Eccolo, è a cinque metri, è finita, quattro tre due un…
Ahhhh, niente, era soltanto, un uomo.”
Con la differenza che un tempo, sia il personaggio di Gaber che quello di Don Abbondio nell`episodio dei Bravi de “I Promessi Sposi” (pavido per eccellenza), trovavano in qualche modo il modo di andare avanti, pur nella loro pavidità e costrizione. Accettavano la sfida a proseguire sulla strada dell’ignoto, mettendosi poi nelle condizioni di “cambiare”, di venire “illuminati” o di essere redenti (sugli esiti, direi che se l’è cavicchiata meglio il personaggio immaginato da Gaber!..)
Oggi? Nel venir meno di prospettiva non c’è più sentiero, si dileguano quindi anche le rimanenti possibilità di cambiamento dovute all’andare “incontro” (disvelamento): “si rimane fermi” a prescindere, in un corto circuito mediatico dove non c’è più spazio per l’altro ma si è solo hooligans della propria squadra. Così le paure si condividono su Facebook in attesa di un mi piace che le confermi e le rifletta, come in un labirinto di specchi.